Occupazione, i giovani sono sempre meno disposti ai sacrifici? Pisani (Cng): «Falso, la maggior parte accetta lavori sottopagati»

La presidente del Consiglio nazionale dei giovani smonta il mito dei ragazzi che preferiscono restare a casa, sul divano, con il reddito di cittadinanza: «Una narrazione che non corrisponde al reale, ma contribuisce a creare sfiducia»

Il Veneto e il Piemonte comunicano i dati, i giornali riprendono la notizia: sono in aumento le assunzioni degli over 50. Ed è una buona notizia se una fascia di popolazione spesso considerata troppo anziana per essere occupabile, adesso, ritrova il lavoro perduto. Solo nel mese di febbraio, nelle imprese venete sono stati assunti 5.600 over 55. In Piemonte, Repubblica parla di «rivincita dei capelli bianchi». Quello che negli Stati Uniti chiamano fenomeno del re-hiring, in terra sabauda si è manifestato con 103 mila nuovi posti di lavoro per persone con più di 50 anni, nel 2022. Un dato migliore persino del 2019, in era pre-Covid. A queste notizie, purtroppo, si aggiunge una narrazione che colpevolizza i giovani per l’alto tasso di disoccupazione che, invece, li riguarda. Dal choosy di Elsa Fornero, in voga un decennio fa, al divano di Francesco Lollobrigida: i ragazzi, secondo il racconto di chi attribuisce metà della responsabilità al reddito di cittadinanza e l’altra all’educazione ricevuta, avrebbero perso lo spirito di sacrificio. Esprime chiaramente il concetto Walter Agostini, 56 anni, neoassunto in una struttura ricettiva veneta: «Oggi, i giovani hanno poca voglia di mettersi sul mercato. Tanti hanno genitori con la possibilità di lasciarli tirare a campare. Io invece sono stato abituato a guadagnarmi la pagnotta ogni mese».


Oltre Walter, tanti esponenti politici e del mondo dell’imprenditoria ne fanno una questione generazionale. Cadendo, purtroppo, nella facile contrapposizione tra due “Italie” completamente differenti: quella che ha vissuto sulla scia del boom economico, un miracolo industriale tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60, e quella che invece non riesce a uscire da uno stato di «permacrisi». Usa questo neologismo Maria Cristina Pisani, presidente del Consiglio nazionale dei giovani – il Cng -, per definire la condizione di disagio psicologico, fisico e sociale a cui sono condannati quei ragazzi che, dal 2008, hanno dovuto vivere un contesto di crisi dopo l’altro: il crack degli istituti bancari, l’austerity derivata dal rischio di default per i debiti sovrani, la pandemia, la guerra in Ucraina. Nonostante ciò, la ricerca conclusa lo scorso anno dall’organo consultivo del governo sui giovani e il lavoro restituisce un’immagine distante da quella del ragazzo che resta seduto sul sofà in attesa del reddito di cittadinanza. «Gli studi realizzati dimostrano che, in realtà, i giovani italiani si mettono alla prova e, pur di emanciparsi economicamente, accettano delle condizioni di lavoro che non dovrebbero accettare. Non parliamo solo di lavoro sottopagato, ma di lavoro in nero».


Disposti a lavorare al punto di accettare posti con contratti pirata

Su un campione nazionale di 960 giovani della fascia di età 18-35 anni, il 54,2% ha dichiarato di aver svolto uno o più lavori in nero, senza contratto. Il 61,5% ha accettato un lavoro sottopagato, il 56,6% afferma di aver ricevuto – e nella maggior parte dei casi accettato per almeno due volte – offerte di lavoro sotto inquadrato rispetto alle proprie competenze. «È evidente che esiste una difficoltà nel trovare giovani disposti a lavorare in determinati settori, ma è altrettanto evidente che le proposte fatte loro non sono allettanti come quelle che arrivano in altri segmenti di mercato, oppure da altri Paesi europei». Per Pisani, la scarsa appetibilità delle offerte in quei settori che scontano una carenza di lavoratori giovani va collocata in un contesto più ampio: «Non si può affrontare seriamente la questione se prima non si correggono quelle dinamiche che causano una forte migrazione giovanile lungo tre direttrici. Molti, troppi ragazzi sono costretti a spostarsi dal Sud al Nord, dalle province ai centri cittadini, dall’Italia all’estero. Tra le prime evidenze di questa scarsità di opportunità per i giovani, e quindi di lavori equi dal punto di vista della mansione e del compenso, c’è l’aumento della denatalità. Per un ragazzo, oggi, è difficile immaginare di riuscire a costruire un nucleo familiare, senza certezze economiche».

Sottopagati e sotto inquadrati

Secondo l’analisi del Cng, il 37,5% dei ragazzi è andato incontro a un’ingiustizia economica in ambito lavorativo, venendo pagato meno di quanto pattuito. Il 32,5% dei giovani intervistati, poi, ha lamentato di non essere stato pagato almeno in un’occasione in seguito al lavoro svolto. C’è un’assenza di garanzie e tutele che, come effetto, va ad alimentare la sfiducia nei giovani che si affacciano al mercato del lavoro. «La generazione alla quale oggi qualcuno imputa una certa pigrizia, in realtà, ha visto diminuire di ben sette volte la propria ricchezza rispetto alle generazioni precedenti». Come se lo spiega? «L’Italia, nel suo insieme, non è stata un terreno fertile per la creazione di posti di lavoro. Per tre ragioni: la burocrazia che rallenta i processi industriali, una scarsa certezza del diritto e la carenza di infrastrutture che non consente, al Sud, di essere attrattivo verso gli investimenti». Questi tre elementi hanno fatto sì che, in certe aree del territorio, si sviluppassero solo determinate tipologie di economie, «le quali, spesso, non hanno risorse per compensare i giovani dello sforzo richiesto».

Il reddito di cittadinanza non incentiva la ricerca di lavoro, ma non è nemmeno la causa della disoccupazione giovanile

Pisani, poi, mette in evidenza il tema del mismatch tra competenze acquisite e offerte di lavoro: «Questa generazione è quella che ha avuto il più ampio accesso ai gradi di istruzione. È logico che un giovane che è più preparato rispetto al genitore ambisca ad avere occupazioni in linea con i suoi studi e proporzionate nella paga. Ecco, se c’è un fondo di verità riguardo al vantaggio competitivo degli over 50, lo individuiamo qui: i giovani, avendo avuto un diverso approccio all’istruzione rispetto alle precedenti generazioni, nutrono aspettative più alte. Invece, l’Italia è un Paese che ha visto fermarsi il suo ascensore sociale». Sul reddito di cittadinanza, la posizione del Cng è abbastanza critica: «Le misure di sostegno alla povertà sono necessarie, ma la risposta forse va indirizzata verso altri tipi di interventi. Formazione, orientamento, riduzione del cuneo fiscale, sistema Paese più aperto agli investimenti», elenca Pisani. Che aggiunge: «Certamente il reddito di cittadinanza meritava di essere rivisto. Ma sarebbe sbagliato ridurre a questo sussidio i problemi occupazionali dei ragazzi. Dobbiamo partire da un presupposto: i giovani, oggi, da un lato hanno una maggiore consapevolezza che sia giusto avere un bilanciamento tra vita professionale e personale, dall’altro non hanno speranza nel futuro a causa della “permacrisi” a cui facevo riferimento poc’anzi».

«Ci sono città in Italia che non consentono a un giovane che ha una paga media di viverci. Con che coraggio critichiamo i ragazzi?»

All’assenza di fiducia, secondo Pisani, è collegato il largo fenomeno dei Neet, che vede il nostro Paese ai primi posti in Europa per numero di giovani Not in Education, Employment or Training. «La narrazione contribuisce a costruire la verità. Se i giovani italiani sono immersi in un racconto negativo riguardo al proprio futuro, perché dovrebbe nascere in loro uno sforzo per fare qualcosa di nuovo? L’impegno non può che derivare da uno spiraglio di speranza, di crescita. Dovremmo smetterla di porre le generazioni, l’una contro l’altra. Dovremmo smetterla di raccontare solo le circostanze negative oppure, dall’altro estremo, solo storie eccezionali, come se fossero la normalità. Cominciamo a raccontare il quadro reale del Paese con una prospettiva di ottimismo». Conclude Pisani. «Il contesto generale abitua talmente tanto alla rassegnazione che, se anche il ruolo è oggettivamente sottodimensionato, molti ragazzi si ritengono persino fortunati per aver trovato un’occupazione. Ci sono città in Italia che non consentono a un giovane che ha una paga media di viverci, emanciparsi, rendersi indipendente dalla propria famiglia. L’affitto in città come Milano e Roma è quasi totalizzante rispetto alle possibilità economiche. Davvero chiediamo ai giovani con una laurea e magari un master di lavorare per riuscire a pagarsi una stanza in un appartamento condiviso, a 30 anni, e contemporaneamente abbiamo il coraggio di criticarli se non hanno più fiducia nel mondo del lavoro?».

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