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L’esperto israeliano: «L’offensiva di terra si farà, ma anche Netanyahu sa che è impossibile sradicare del tutto Hamas» – L’intervista

17 Ottobre 2023 - 21:07 Simone Disegni
Parla a Open Nimrod Goren, fondatore del think-tank Mitvim: «Anche dopo la guerra Israele avrà bisogno di qualcuno con cui negoziare. E la pace non sarà impossibile»

L’offensiva di terra? «Certo che Israele la lancerà. Non potrebbe raggiungere in alcun altro modo l’obiettivo supremo che si è prefisso per la guerra in risposta al massacro del 7 ottobre: smantellare definitivamente ogni capacità politico-militare di Hamas». Non ha dubbi Nimrod Goren, esperto di politica estera israeliana, fondatore e presidente del think-tank Mitvim. Ma ciò non significa, come gli annunci roboanti degli ultimi giorni del governo hanno suggerito, che gli apparati di sicurezza dello Stato ebraico ritengano realistico sradicare del tutto il partito-milizia, rileva parlando con Open da Gerusalemme lo specialista. Perché Hamas trova radice nella rabbia insita nel profondo dei palestinesi di Gaza, e perché Israele stessa potrebbe aver bisogno di qualcuno con cui negoziare anche dopo la conclusione del conflitto, se non altro per riportare a casa il maggior numero di ostaggi e prigionieri di guerra. Uno scenario da incubo certo, quello in cui si trova in queste ore Israele, stretto tra la pressione interna a dare una risposta «definitiva» ad Hamas dopo l’affronto del 7 ottobre, quella altrettanto potente a salvare gli ostaggi, gli attacchi da Nord di Hezbollah e i proclami bellicosi dell’Iran. Eppure, si spinge a teorizzare Goren dall’osservatorio del suo think-tank progressista, da anni impegnato a generare idee, reti e incontri a sostegno del processo di pace, proprio dalla risposta a questo scenario da incubo potrebbero nascere i semi di un nuovo, ambizioso percorso di convivenza pacifica tra Israele, i palestinesi e gli altri popoli della regione. Ci vorrà tempo, risorse, e impegno, ma se ci saranno tutti questi ingredienti – sostiene Goren – un giorno la pagina d’indicibile dolore e di accerchiamento che sta vivendo in queste ore il Paese sarà il passato.

Signor Goren, sin dalle prime ore dopo il massacro compiuto da Hamas il governo israeliano ha evocato e poi annunciato il lancio di un’operazione di terra dentro la Striscia di Gaza per sradicare il gruppo terroristico. A dieci giorni di distanza questa non è ancora partita. Perché? Il governo sta solo prendendo tempo o è verosimile ci sia un ripensamento sulla fattibilità dell’operazione?

«Qualsiasi operazione sarà lanciata dovrà servire gli obiettivi definiti per questa guerra. E quello individuato dal governo israeliano è molto ampio: smantellare Hamas dalla sua capacità o di porre una minaccia militare a Israele o di continuare a governare Gaza. Per fare ciò un’operazione di terra pare necessaria: non si può pensare di smantellare le capacità di Hamas soltanto con raid aerei. Per questo l’esercito si sta preparando a condurre un’offensiva di questo tipo da ormai quasi una settimana. L’aspettativa era in effetti che l’operazione sarebbe stata lanciata piuttosto rapidamente, cosa che non è successa. Parte della ragione potrebbe essere legata al tempo che è stato dato per i negoziati umanitari. Lo abbiamo visto nell’ultimo paio di giorni con i conciliaboli sul passaggio sicuro di cittadini stranieri da Gaza dal valico di Rafah verso l’Egitto e di qui nei loro Paesi natali così come sull’ingresso di aiuti umanitari dall’Egitto verso Gaza. Per Israele c’è poi il tema importantissimo del destino dei cittadini rapiti. Ci sono quasi 200 israeliani ostaggi nelle mani di Hamas a Gaza, compresi donne, bambini e anziani, e l’ipotesi è che se c’è qualche possibilità di concludere uno scambio di qualche sorta sia molto più facile farlo prima che inizi l’operazione di terra piuttosto che dopo. Infine c’è il ruolo degli Usa: abbiamo visto all’opera in questi giorni la shuttle diplomacy di Blinken e s’attende domani la visita del presidente Biden, ed è da considerarsi inverosimile che qualcosa può accadere prima della conclusione della sua visita». 

Quale sarà il messaggio che Biden porterà domani a Netanyahu e al suo gabinetto di guerra?

«Prima di tutto un messaggio di sostegno a Israele, quello forte e chiaro che lui e la sua amministrazione stanno costantemente veicolando da quando tutto è cominciato. Può sembrare scontato, ma non lo è, e lo stesso discorso di Biden diretto agli israeliani è stato accolto con grande calore. In seconda istanza porterà un messaggio di deterrenza nei confronti dell’Iran e di Hezbollah dal tentare di espandere la guerra. C’è grande preoccupazione per il possibile allargamento del conflitto oltre Gaza su altri fronti regionali – il Libano in primis, ma anche altre possibili azioni iraniane – e gli americani non vogliono che ciò accada, e stanno facendo capire che qualsiasi sviluppo di questo genere avrà delle conseguenze da parte degli Usa: il sostegno militare a Israele, il dispiegamento delle portaerei, la visita di Biden sono tutte mosse intese a mandare questo messaggio. Infine c’è il tentativo di promuovere un pacchetto umanitario, ma anche di pensare alla strategia per il day after. Questa è una nuova situazione, in cui nessuno di noi pensava ci saremmo trovati, perciò c’è bisogno di ripensare a ciò che succederà una volta che Israele avrà raggiunto gli obiettivi della guerra».

La crisi degli ostaggi è forse l’aspetto più terribile con cui Israele deve fare i conti in queste ore, e un dilemma politico-militare da capogiro. Pensa ci sia speranza che Israele riesca a salvarli, o almeno una parte di loro, mentre conduce l’operazione di terra?

«Sì, penso che questo sia proprio uno degli obiettivi centrali dell’operazione di terra e che si possa sperare nel suo raggiungimento. Solo l’esercito sa in questo momento quanto esattamente ciò sia difficile, e spero che sia in possesso di informazioni su dove gli ostaggi si trovano e come raggiungerli. Ma penso che la valutazione al momento sia che ci saranno due fasi di trattativa. La prima è quella attuale e riguarda un possibile scambio umanitario prima dell’operazione di terra, che coinvolga donne, bambini ed anziani. Abbiamo visto dei tentativi in questo senso ieri, quando sembrava alle viste un cessate il fuoco umanitario di cinque ore per consentire il passaggio sicuro di cittadini stranieri dalla Striscia di Gaza verso l’Egitto e l’ingresso di aiuti umanitari dall’Egitto verso la Striscia. L’accordo non si è però poi concretizzato, probabilmente proprio perché Israele voleva legare qualsiasi concessione umanitaria al rilascio degli ostaggi detenuti a Gaza, a cominciare da donne, bambini e anziani. La visita di Biden segnala che probabilmente Israele acconsentirà ora ad alcune azioni umanitarie, vedremo in cambio di che cosa. Ma di certo c’è una consapevolezza generale che mentre i combattimenti a Gaza potrebbero durare a lungo, vanno presi in conto i bisogni umanitari della popolazione e soddisfatti il più possibile i loro bisogni primari».

E la seconda fase di trattativa?

«Una volta lanciata l’offensiva vera e propria ci si concentrerà sullo sforzo militare per provare a salvare tutti gli ostaggi che si riuscirà. Non so quanto ciò sarò facile. Quindi, al termine della guerra si aprirà una seconda fase negoziale, e allora sul tavolo ci sarà un altro possibile scambio, che coinvolga soprattutto militari, paramilitari e persone di simile profilo».

A che si riferisce?

«Una volta che la guerra sarà finita, ci sarà una qualche forma di accordo per il tramite di mediatori internazionali, e con ogni probabilità i negoziati includeranno la possibilità di uno scambio di prigionieri. Ora non conosciamo la portata esatta degli elementi che saranno sul tavolo – quanti israeliani saranno stati nel frattempo rilasciati, quanti saranno ancora in vita, quanto militanti di Hamas saranno nel frattempo stati catturati e aggiunti al numero di quelli che già sono nelle prigioni israeliani. Ma ciò che è certo è che tutto ciò sarà discusso. Anche se non necessariamente implementato. In altre precedenti guerre abbiamo visto che sebbene ci fossero prigionieri di Hamas non c’è poi stato alcuno scambio. Ma non c’è mai stato neppure lontanamente un tale numero di ostaggi israeliani a Gaza. Questa è una situazione totalmente nuova, e per Israele è una priorità riportarli a casa, in qualsiasi stato».

Ma l’obiettivo dell’operazione di Israele non è forse quello di sradicare Hamas, e dunque di arrivare a non avere semplicemente più alcuno di loro con cui dover parlare o negoziare?

«Va fatta una distinzione importante tra la possibilità di sradicare Hamas come organizzazione e quella di smantellare le sue capacità militari e di governo. Credo ci sia la consapevolezza (negli apparati israeliani, ndr) che Hamas è un’organizzazione che riflette delle radicate attitudini sociali, basata su delle idee. È molto difficile sradicare un’organizzazione di questo genere. L’obiettivo sarà quindi assicurarsi che non possa più porre una minaccia militare né governare. Ma ciò non significa che chiunque sia affiliato con Hamas non sarà più attivo in una qualche forma. La portata esatta di cosa resterà ci è al momento sconosciuta, ma penso che per Israele ora. la priorità n° 1 sia davvero assicurarsi che lo status quo cambi, e che emerga una qualche forma di nuova leadership a Gaza».

Da giorni Hezbollah sta lanciando o tentando attacchi più o meno circoscritti sul nord di Israele. Quanto valuta serio il rischio che si apra un secondo fronte di guerra con il Libano?

«Il rischio c’è eccome, perché la situazione al confine è molto movimentata. Vediamo praticamente ogni giorno attacchi da parte di Hezbollah o con colpi di artiglieria o con tentativi di infiltrazione – gli ultimi ancora questa mattina a Metulla. Al momento non è chiaro se questo sia solo un tentativo di distrarre l’attenzione di Israele dal fronte sud, o se Hezbollah sia realmente interessato a qualcosa di più. E se lo sia l’Iran dietro di esso. Ciò che è chiaro, come dicevo, sono i segnali americani per tentate di scoraggiare che ciò succeda: dichiarazioni pubbliche, azioni militare, visite di alto livello. Questa è un’evidente priorità, perché se si aprisse un secondo fronte, probabilmente questo non coinvolgerebbe solo Israele, ma avrebbe conseguenze regionali gravi. E molti Paesi che hanno un peso nella regione – non solo gli Usa, anche diversi Stati arabi – non vogliono che ciò accada».

Ieri sera un attentato islamista ha rifatto sprofondare Bruxelles nella paura, nei giorni fa un attacco in una scuola e diversi altri allarmi hanno scosso la Francia, questa mattina le autorità italiane hanno arrestato due persone sospettate di legami con l’Isis. Vede il rischio di un risveglio del terrorismo jihadista anche in Europa?

«Penso che il tema della sicurezza interna europea, al centro del dibattito con approcci diversi in tutti i Paesi Ue, sia in termini generali slegato da ciò che sta accadendo in Israele e a Gaza. Certo la dimensione securitaria potrebbe acuirsi in questo momento perché l’instabilità si propaga, tramite manifestazioni nelle strade o minacce a obiettivi ebraici in Europa come abbiamo visto negli scorsi giorni. La situazione non è normale. Ma non legherei la gestione degli affari interni europei a ciò che sta accadendo tra Israele e Hamas. Guardando all’Europa dal lato israeliano invece, quel che abbiamo visto negli ultimi dieci giorni è stato un sostegno molto forte, cosa che non accade sempre quando Israele ha tensioni con i suoi vicini, e la cosa è molto incoraggiante. L’Italia, la Germania, il Regno Unito ed altri hanno fatto sentire chiaro il loro supporto. Certo la narrativa può cambiare man mano che la guerra prosegue, perché ci sono evidentemente anche le sofferenze dei palestinesi, ma oggi è qui in visita il cancelliere tedesco e nell’insieme credo che Israele senta che c’è stata una comprensione in Europa di ciò che abbiamo subìto – o quanto meno più del solito».

Lei guida Mitvim, un’organizzazione impegnata non solo a elaborare nuove idee per la politica estera israeliana, ma specialmente nella direzione di una soluzione di pace con i popoli arabi. Cosa resterà del processo di pace o se non altro di una prospettiva di coesistenza pacifica tra israeliani e palestinesi dopo la strage di Hamas e la guerra in cui stiamo per piombare?

«Una delle cose su cui più abbiamo insistito negli ultimi tre anni è stata la necessità di far leva sugli Accordi di Abramo e dunque le nuove relazioni di cui Israele gode nel Medio Oriente per progredire sul fronte israelo-palestinese. Non è facile perché c’è un’opposizione palestinese a ciò che alcuni Paesi arabi hanno fatto, ma c’è un’opportunità di fare in modo che i progetti di cooperazione regionale che stanno emergendo beneficino anche i palestinesi, direttamente o indirettamente. E sono convinto che alcuni Paesi arabi – come l’Egitto, la Giordania e il Marocco – abbiano davvero a cuore il destino dei palestinesi, e siano disponibili a impegnarsi per la soluzioni due popoli due Stati. Naturalmente dobbiamo distinguere tra la causa palestinese e Hamas. Ciò che Hamas ha fatto nell’ultima settimana non supporta in alcun modo la causa palestinese, né l’avvicinamento della soluzione dei due Stati, e danneggia gli stessi palestinesi di Gaza. Ma se la guerra finisce in una situazione in cui una qualche forma di leadership palestinese riesce a emergere da Ramallah e ad avere autorità anche su Gaza, con un sostegno regionale e internazionale, ciò costituirà una nuova realtà in cui c’è qualcuno che rappresenta i palestinesi su un territorio unificato con cui la comunità internazionale possa tornare a interloquire».

Su quali basi?

«Per esempio ripartendo dalla Arab Peace Initiative, o ciò che resta rilevante di essa, o ancora del cosiddetto Peace Day Effort messo a punto lo scorso mese da Ue, Lega Araba, Arabia Saudita, Egitto e Giordania per individuare i possibili incentivi regionali utili a spingere israeliani e palestinesi verso la pace. Ovviamente tutto ciò sarà ora rallentato da ciò che accade a Gaza, e potrebbe avvenire solo dopo che una nuova generazione di leadership palestinese sarà emersa, dato il discredito di quella attualmente alla guida dell’Anp. Ma la combinazione della nuova realtà di sicurezza sul terreno dopo la sconfitta di Hamas con le aperture di Paesi arabi verso Israele potrebbe indicare la direzione giusta».

Possibile persino nell’ora più buia della storia di Israele da almeno 50 anni osare alzare lo sguardo e immaginare un percorso del genere?

«Penso che lo dobbiamo fare. E penso che per chiunque voglia vedere la pace tra israeliani e palestinesi e un futuro possibile per i popoli della regione, questa sia la responsabilità. Queste cose non succedono da sole. C’è bisogno di persone che le guidino, che generino nuove idee, che immaginino nuovi piani, che si spendano pubblicamente, li sospingano, e facciano di tutto per aumentare il dialogo tra israeliani e palestinesi. Questa è la missione che abbiamo. Può essere difficile, come una scalata, ma è l’unico modo per assicurare un futuro migliore, o almeno provarci. Abbiamo appena ricordato i 50 anni dalla guerra del Kippur del 1973, un evento terribile nella storia di Israele che oppose il Paese all’Egitto ed altri Paesi. Bene, sei anni dopo Israele ed Egitto si sedevano ad un tavolo a firmare un Trattato di pace. Ecco, a volte eventi terribili, trasformativi, innescano nuove dinamiche diplomatiche che, se utilizzate correttamente, hanno il potenziale di portare realtà migliori per il futuro. Ma certo in questo momento il prezzo che Israele e gli israeliani devono pagare è orribile, ed è qualcosa che non avevamo mai provato prima».

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