I tunnel, le separazioni forzate, le minacce e le fughe: la prigionia a Gaza raccontata dai primi 50 ostaggi liberati

Dov’erano tenuti prigionieri i rapiti? Dove sono quelli rimasti? Chi e come li ha gestiti? Le prime risposte dai racconti dei liberati ai loro parenti

Dov’erano tenuti prigionieri gli ostaggi liberati da Hamas nei primi 4 giorni di tregua? Dove sono gli altri quasi 200 israeliani tuttora nelle grinfie degli jihadisti? E come sono stati trattati? Ci vorrà tempo, cura e pazienza per poter ricostruire un quadro completo di risposta a queste domande: i liberati sono sotto shock, e i terapeuti israeliani hanno caldamente raccomandato di evitare ogni contatto diretto con i media almeno per i primi giorni. Anche quando parleranno, non è detto diranno tutto: Israele potrebbe chiedere loro di non rivelare dettagli che in questa fase sono preziose informazioni di intelligence, Hamas potrebbe averli minacciati di più o meno credibili rappresaglie se sveleranno questo o quel dettaglio. Ma parte dei primi 50 ostaggi liberati da Gaza ha iniziato a raccontare a chi ha potuto riabbracciare dopo 50 giorni: i propri parenti sopravvissuti alla strage del 7 ottobre. Da quei pezzi di racconto iniziano ad emergere i frammenti del mosaico del terrore inflitto agli ostaggi da Hamas. Tra case, tunnel, spostamenti, e tentativi di fuga. E la guerra, là fuori. Ecco cosa sappiamo.


La discesa agli inferi e l’incontro col capo di Hamas

Presi a forza e portati a Gaza su van, camionette, moto, golf cart, gli ostaggi sono stati fatti scendere nel dedalo di tunnel che percorre i sotterranei della Striscia, s’è a più riprese ipotizzato. È così? In parte sì e in parte no, è la risposta più realistica sulla base dei racconti sin qui emersi. Nei tunnel sicuramente gli ostaggi sono stati fatti calare subito, poche ore dopo il rapimento del 7 ottobre, con ogni probabilità per essere «contati» e smistati. Lo aveva raccontato già la prima prigioniera israeliana liberata, l’85enne Yocheved Lifshitz, testimone particolarmente acuta per il suo particolare vissuto: attivista per la pace, per lunghi anni prima che Hamas ne prendesse il controllo aveva frequentato la Striscia, poi aiutava i suoi residenti malati a uscirne per ricevere trattamenti in ospedali israeliani. «Mi hanno portata ad Abasan al-Kabira, non lontano dal confine, poi in un’altra località che non ho potuto identificare. Alla fine siamo scesi sottoterra e abbiamo camminato per ore e per chilometri in un dedalo di tunnel umidi. Siamo arrivati quindi in un’ampia stanza: qui eravamo un gruppo di 25 persone, e ci hanno separati a seconda del kibbutz da cui provenivamo», aveva raccontato la donna a fine ottobre, dopo la sua liberazione (senza il marito, rimasto prigioniero). Ieri il suo racconto si è arricchito con un altro, dal sapore sinistro. Nei sotterranei di Gaza alcuni degli ostaggi israeliani avrebbero ricevuto la «visita» del capo di Hamas nella Striscia, l’imprendibile Yahya Sinwar. L’incontro, secondo quanto riferito da uno dei liberati e reso noto dalla tv israeliana Canale 12, sarebbe avvenuto all’indomani del sequestro, domenica 8 ottobre, e Sinwar l’avrebbe utilizzato per rassicurare gli ostaggi. «Qui siete protetti. Non vi succederà nulla», avrebbe detto il capo di Hamas al gruppo di ostaggi – tutti provenienti dal kibbutz di Nir Oz – parlando nel perfetto ebraico imparato negli anni di prigione.


Cessioni e separazioni

Terminata questa prima fase di identificazione, però, i destini degli ostaggi si sono divisi. Per questo è ragionevole dubitare che l’esperienza seguita di lì in poi sia (stata) omogenea per tutti. Merce di scambio di altissimo «pregio» e prezzo, nella logica del terrore degli jihadisti, gli ostaggi catturati dai miliziani sono stati divisi: alcuni affidati a carcerieri di (o legati a) Hamas, altri a quelli afferenti ad altri gruppi terroristici, come la Jihad islamica. Altri ancora, nell’ambito di trattative ma anche in operazioni di sciacallaggio, sarebbero finiti nelle mani di criminali comuni, cani sciolti. Molti, in ogni caso, sono finiti in abitazioni sparse per la Striscia. Lo hanno raccontato diversi ostaggi. In questi giorni l’intelligence israeliana sta raccogliendo elementi utili a capire dove si trovassero, e dove si trovino i restanti. L’ipotesi prevalente al momento è che siano (stati) detenuti in due aree principali – una nella zona di Gaza City, a nord, l’altra in quella di Khan Younis, a sud. Non si esclude che diversi ostaggi siano stati trasferiti, anche più volte, da una prigione a un’altra: per confondere l’intelligence israeliana, per sfuggire ai bombardamenti dell’Idf, ma anche per scopi apparentemente legati a puro sadismo. È il caso di Raya Rotem, la madre della 13enne Hila rilasciata sabato al termine di ore di tensione. Accusata di violare i termini dell’intesa, che prevede non siano divisi bambini e genitori nel rilascio, Hamas si era «giustificata» sostenendo nelle ore successive di non essere riuscita a localizzare la donna, in mano ad altri gruppi. Ricostruzione platealmente sconfessata dalla ragazzina stessa, che ha raccontato che era sempre stata in compagnia della madre: sino a due giorni prima del rilascio, quando i carcerieri di Hamas le hanno separate.

Bambini che tornano orfani

Hila e Raya non sono le uniche due parenti strette separate nel corso della prigionia o in visita della liberazione. Molti dei bambini e ragazzini liberati negli ultimi giorni hanno dovuto lasciare indietro i padri – perché Hamas sta rifiutando al momento di rilasciare qualsiasi maschio adulto. Senza contare il dramma di quei bimbi che i genitori non li hanno più, perché il 7 ottobre i terroristi li hanno trucidati, spesso davanti ai loro stessi occhi. È il caso ad esempio di Abigail Mor-Edan, la piccola americano-israeliana rilasciata dopo 50 giorni su pressioni anche personali dello stesso Joe Biden e tornata verso una vita da orfana. La stessa cui andranno incontro Noam e Alma Or, 17 e 13 anni rispettivamente, rilasciati sabato. Il loro dramma nel dramma sta nel buio informativo in cui hanno vissuto per settimane. Portati via con la forza il 7 ottobre, i due ragazzini erano convinti che al ritorno avrebbero finalmente potuto riabbracciare la madre. Non conoscevano ciò che le era accaduto: nell’imprevedibile scelta del momento, i miliziani le avevano sparato mentre tentava la fuga, uccidendola. Noam e Or lo hanno scoperto solo ora, una volta tornati in Israele. E la scoperta è stata per loro devastante, ha raccontato al Guardian lo zio materno, Ahal Besorai.

La fuga del russo-israeliano

In un’abitazione di Gaza sembra fosse trattenuta anche Noa Marciano, la soldatessa 19enne rapita e poi uccisa nella Striscia. La casa in cui si trovava sarebbe crollata in seguito ai bombardamenti dell’Idf, secondo cui la giovane sarebbe quindi stata portata nell’ospedale/base di Al Shifa, dove sarebbe poi stata uccisa. Destino diametralmente opposto quello vissuto da Roni Kriboy, l’unico maschio adulto sin qui rilasciato da Hamas. La sua storia ha dell’incredibile. Tecnico del suono impiegato nella produzione del festival Supernova, il rave nel deserto preso d’assalto il 7 ottobre, Kriboy era detenuto in una casa, in luogo ignoto. Anche quel palazzo crollò a un certo punto della sua prigionia sotto la scure dei bombardamenti israeliani. Kriboy, 25 anni, colse l’attimo. Riuscì a fuggire dai suoi carcerieri, e provò a fare ritorno da solo in Israele. Missione impossibile, raccontata dopo il rilascio alla zia, che l’ha riferita ieri a una radio israeliana. «Ha tentato di raggiungere il confine, ma non avendo strumenti per sapere dove si trovasse e verso dove scappare non ci è riuscito. È rimasto da solo, nascondendosi per quattro giorni», ha raccontato Yelena Magid. Alla fine, quindi, è stato avvistato e ricatturato da cittadini d Gaza, che lo hanno riportato ai miliziani. Kriboy deve la sua libertà al suo doppio passaporto: israeliano, ma anche russo. Domenica Hamas ha annunciato infatti il rilascio di un ostaggio in più come “omaggio” a Vladimir Putin, «per il suo sostegno alla causa palestinese». Tutti gli altri cittadini rapiti sin qui liberati sono donne, anziani e bambini. Anche se ne mancano all’appello ancora decine, compreso il più piccolo di tutti, Kfir Bibas, 10 mesi appena compiuti, che Hamas avrebbe «ceduto» insieme al resto della sua famiglia a un altro gruppo islamista, che terrebbe ora la famiglia in ostaggio nella zona di Khan Younis.

Cibo, luce, farmaci: come sono stati trattati gli ostaggi

Ultima ma non ultima delle domande. Come sono stati tenuti gli ostaggi? Hanno ricevuto cibo, cure? Sono stati maltrattati? La maggior parte dei prigionieri sin qui liberati è apparsa provata, ma in condizioni discrete. Con delle significative eccezioni, però. L’84enne Elma Avraham, rilasciata domenica, è stata portata d’urgenza in ospedale a Beer Sheva, dove si trova ricoverata in terapia intensiva, in prognosi riservata. È quanto i suoi famigliari temevano: la donna, pur «giovanile e vivace», soffriva di alcune patologie che richiedevano che assumesse regolarmente delle medicine. Non ne ha mai ricevuta alcuna per tutto il periodo della detenzione, nonostante a più riprese la famiglia si fosse attivata portando i farmaci necessari direttamente alla Croce Rossa. Un’altra delle donne rilasciate dovrà restare più a lungo in ospedale: è Maya Regev, 21 anni, ferita nel corso dell’assalto al rave di Re’im e che solo ora potrà ricevere i trattamenti necessari, comprese alcune operazioni chirurgiche. Diversi degli ostaggi hanno raccontato poi di essere stati tenuti per lunghi periodo in isolamento, spesso al buio, forse in nascondigli sotterranei. Non si hanno notizie al momento di torture o maltrattamenti subiti, anche se non si può escludere che racconti del genere emergeranno col passare dei giorni. Quanto all’alimentazione, sembra che gli ostaggi abbiano ricevuto cibo con regolarità – pita, riso, formaggio, almeno una volta al giorno – così da preservarli in buone condizioni sino al rilascio. La chiave presumibilmente sta nella «promessa» ricordata di Sinwar: il prezzo che Hamas può trarre dalla loro liberazione è troppo alto – come è chiaro in questi giorni – per «osare» ucciderli. Ma questo vale per chi fin qui è stato liberato: anziani, donne, bambini. Nulla garantisce, sino a prova provata, che lo stesso trattamento sia stato garantito anche agli uomini adulti. Men che meno ai soldati rapiti il 7 ottobre – donne o uomini – che si stima siano un centinaio. La strada per il loro rilascio, negoziato o tramite blitz, pare ancora impervia.

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