Attacco dell’Iran, tre opzioni per la reazione di Israele: colpo ai siti nucleari, ai ministeri o a Hezbollah

Netanyahu e l’obiettivo di abbattere gli ayatollah: il regime change a Teheran e la posizione degli Usa

Un’operazione militare per rappresaglia contro il lancio di missili e droni dall’Iran. Contro il volere di Joe Biden. Con un obiettivo ambizioso: il programma atomico di Teheran. Mentre il governo di Netanyahu lancia segnali distensivi e all’Onu l’Iran dichiara «chiusa» la questione cominciata con l’attacco al consolato di Damasco e l’omicidio mirato del generale Mohammad Reza Zaredi, Tel Aviv studia un contrattacco ad opzioni variabili. Che comprendono anche un attacco ai gruppi filo iraniani come Hezbollah in Libano. Oppure, scrive oggi Repubblica, un bombardamento del ministero della Difesa di Teheran. Con missili lanciati dai sottomarini israeliani. Un altro azzardo che Mister Sicurezza (il soprannome che si è dato il primo ministro israeliano) potrebbe giocarsi.


Bibi nel bunker antinucleare

Anche perché è consapevole del fatto che gli alleati, messi di fronte al fatto compiuto così come è accaduto spesso in questi ultimi mesi dopo il 7 ottobre, non avrebbero altre possibilità che quella di appoggiarlo. E consapevole del fronte interno e dei suoi problemi, come i sondaggi che lo danno per sconfitto alle prossime elezioni in favore di Gantz, dal primo aprile, ricorda oggi il Corriere della Sera, Bibi Netanyahu si è rifugiato nel bunker antinucleare. Ovvero dal giorno dell’attacco all’ambasciata. E nella sua autobiografia My Story ha raccontato di quando voleva ordinare proprio il bombardamento dei centri nucleari iraniani. Con le squadriglie di F-35 che volano sopra il confine tra Siria e Turchia, altri che tagliano attraverso l’Arabia Saudita e il Golfo Persico. Il primo obiettivo sarebbero le difese anti-aeree di Teheran.


L’attacco ai siti dell’uranio

Il secondo i siti atomici veri e propri. Che però sono stati costruiti a 80 metri di profondità. E per i quali servono le bombe bunker buster da 13 tonnellate. Quelle che nemmeno Donald Trump ha accettato di fornire a Israele. I siti principali da colpire sono quattro: Isfahan, Natanz, Fordo e Arak. Il più facile è il primo: si tratta di un impianto industriale dove l’uranio viene convertito in esafluoruro di uranio per renderne più facile l’arricchimento. Gli altri potenziali obiettivi hanno difese naturali difficili da superare. Tranne il reattore al plutonio di Arak che potrebbe essere considerato alla stregua di Isfahan. Un attacco del genere non potrebbe avvenire senza l’aiuto degli Stati Uniti che però in questa fase non sembra che abbiano la volontà di fornirlo.

Le altre opzioni

Anche perché sarebbe un attacco senza risultati garantiti. Per questo si studiano anche altre opzioni. Ovvero i raid aerei contro le basi dei Guardiani della Rivoluzione. O contro le industrie belliche. Oppure ancora come un luogo simbolico come il ministero della Difesa. Usando missili a lungo raggio e i sottomarini che navigano lungo la costa del paese. La terza opzione è l’attacco a Hezbollah. Che costituirebbe l’obiettivo più facile dal punto di vista militare. Ma che non verrebbe compreso dall’opinione pubblica come una rappresaglia nei confronti dell’Iran. Anche se a conti fatti contribuirebbe in modo maggiore alla sicurezza del paese rispetto allo scatenare una guerra con tutti gli sciiti.

Abbattere gli ayatollah

Gad Lerner sul Fatto Quotidiano spiega che gli Usa stanno facendo di tutto per fermare l’escalation. Così come l’Arabia Saudita e le petromonarchie del golfo. Mentre un Netanyahu ridotto all’avventurismo a Gaza potrebbe dare retta ai partiti suprematisti e messianici che compongono la sua maggioranza di governo. E prendere l’iniziativa solitaria di un bombardamento a tappeto su un paese da 90 milioni di abitanti. Per provocare un regime change. Anche perché c’è chi gli suggerisce che una volta tratto il dado sarà difficile per gli alleati non appoggiarlo comunque.

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