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Trump pronto a «tradire» Netanyahu su Gaza e Iran? La grande paura di Israele sul viaggio del leader Usa

13 Maggio 2025 - 18:07 Simone Disegni
Donald Trump Benjamin Netanyahu Usa Israele
Donald Trump Benjamin Netanyahu Usa Israele
I negoziati aperti dalla Casa Bianca con Hamas, Houthi e Teheran preoccupano Israele. «C'è un'opportunità per il cessate il fuoco, ma ai partiti di governo interessa solo il controllo della Striscia», spiega a Open l'ex consigliere diplomatico di Netanyahu

Ma cosa vuole davvero Donald Trump? Sino a una manciata di giorni fa il dilemma toglieva il sonno a leader e cittadini di mezzo mondo. Ovunque tranne che in un Paese: Israele. Forte delle due visite alla Casa Bianca in due mesi, della nomina ad ambasciatore a Gerusalemme di un ultrà come Mike Huckabee e dei mille e uno altri assist all’agenda messianica dell’ultradestra, Benjamin Netanyahu si sentiva in una botte di ferro. Finiti i tempi duri della convivenza con Joe Biden, gioivano il premier e i suoi, con la nuova Amministrazione Usa Israele vedeva i pianeti allineati: linea dura con l’Iran, «inferno» per Hamas se non avesse liberato tutti gli ostaggi, benevolenza sull’espansionismo in Cisgiordania e a tendere magari pure nella Striscia di Gaza. Ora nell’arco di due settimane tutto pare essere cambiato. O per lo meno rimesso in discussione. Donald Trump è atterrato questa mattina in Arabia Saudita, ma il suo atteso viaggio in Medio Oriente ora fa correre i brividi lungo la schiena degli israeliani. Per lo meno quelli di governo.

Ostaggi, Houthi, Iran: se Trump volta la faccia a Netanyahu

Il presidente Usa sbarca nel Golfo una manciata di ore dopo aver festeggiato in grande stile il rilascio da Gaza di Edan Alexander, soldato 21enne preso in ostaggio da Hamas il 7 ottobre 2023 insieme a centinaia di altri cittadini israeliani. Peccato che nei post in cui ha celebrato la notizia «monumentale» Trump non abbia mai indicato Alexander una sola volta come israeliano, ma solo come «ostaggio americano» (nato in Israele e poi tornatoci a 18 anni dal New Jersey, ha entrambe le cittadinanze). Di più, non ha mai neppure citato Israele, né il suo premier. Ha ringraziato se mai Egitto e Qatar, evocato perfino la «buona fede» di chi ha compiuto il gesto/regalo (Hamas), e messo in chiaro che l’obiettivo finale da rimettere nel mirino dev’essere quello di liberare tutti gli ostaggi e «mettere fine a questa guerra brutale». Brividi, appunto, per la destra israeliana, che con l’addio di Biden e la sconfitta di Kamala Harris quei toni dagli Usa contava di non sentirli più. E invece si rincorrono le voci – che la Casa Bianca lascia volentieri filtrare – di un possibile annuncio imminente, magari dall’Arabia Saudita o dal Qatar, di una nuova intesa partorita sopra la testa di Israele per arrivare al cessate il fuoco a Gaza. Con buona pace dei piani di «espansione della guerra» nella Striscia varati appena la scorsa settimana dal gabinetto di guerra di Netanyahu. Senza contare che nel frattempo gli Usa hanno aperto almeno altri due tavoli di negoziato senza neppure consultare Israele: quello con gli Houthi, già culminato in un’intesa «separata» di cessate il fuoco, e quello con l’Iran sul programma nucleare, che pare procedere positivamente. Allarme rosso.

«Sindrome Biden» di ritorno su Gaza?

Cos’è successo nel frattempo? E davvero Trump è sul punto di «tradire» Netanyahu, come si sente dire negli ultimi giorni su Canale 14, la tv più scatenata della destra? «Questa per ora è propaganda della frangia più populista e ideologica dell’ultradestra. Quel che prevale nel Paese al momento è un senso generale di confusione e disorientamento», osserva Nimrod Goren, presidente del think-tank Mitvim. Mezzo mondo aveva fatto il callo nei primi 100 giorni alla volubilità di Trump, ma per Israele, come detto, c’è qualcosa di nuovo e straniante. «Che si tratti dell’Iran, degli Houthi o degli ostaggi, la gente ha la sensazione che il pallino in mano sulle questioni che riguardano direttamente la sicurezza di Israele non l’abbia più Netanyahu, ma Trump. Non era mai successo, e disorienta profondamente». Non che a Washington siano cambiati i fondamentali e non interessi più la sicurezza d’Israele, precisa l’analista. Però da qualche tempo a questa parte alla Casa Bianca sembra essersi radicata la percezione che Netanyahu «non è in grado di portare i risultati sulla sicurezza di Israele che l’Amministrazione vorrebbe». Come segnala su Haaretz un altro navigato esperto della materia come Amos Harel, Trump sembra essersi reso conto che Netanyahu «vuole continuare la guerra in eterno, con qualsiasi pretesto, pur di garantirsi la sopravvivenza della coalizione di governo». Esattamente la conclusione cui era giunto già a pochi mesi dal 7 ottobre Joe Biden, arrivato a un passo dal rompere con Israele anche sul piano militare per i continui no di Netanyahu ai piani di tregua a Gaza.

Il rischia-tutto di Netanyahu

La novità, rispetto a un anno fa, è che la testardaggine «anti-diplomatica» del governo Netanyahu ora preoccupa più seriamente anche un certo establishment conservatore. Spiega a Open un altro analista come Eran Lerman, ex colonnello dell’esercito e già consigliere dello stesso Netanyahu: «La cosa più promettente per Israele del viaggio di Trump sono le possibili novità in arrivo sulla strada della normalizzazione con l’Arabia Saudita. Potremmo facilitare questo processo ora accettando il cessate il fuoco e iniziando a parlare coi Paesi arabi sul futuro di Gaza senza Hamas – fermo restando che se non ci si dovesse riuscire potremo sempre tornare dentro la Striscia per colpire a fondo Hamas. Ma il problema è politico, perché i partiti della coalizione di governo non sono interessati ad altro che al controllo israeliano sulla Striscia e in ipotesi anche al ricollocamento dei palestinesi. Non penso che questo succederà davvero, ma negare esplicitamente l’opzione diplomatica può avere effetti destabilizzanti per Israele». Fino a che punto Netanyahu è disposto a rischiare, resistendo alle pressioni perfino del suo miglior alleato di sempre pur di salvaguardare gli equilibri di governo?

Cosa porterà a casa Trump dal viaggio nel Golfo

Quel che è certo è che Trump resta un leader umorale, che decide o indica la via – specie in politica internazionale – per intuizioni e «fiammate». Così come si è «stufato» della testardaggine di Netanyahu – tanto quanto di quella di Vladimir Putin – potrebbe presto tornare a volgere le sue ire contro Hamas, o contro l’Iran. O magari semplicemente tornare a disinteressarsi alla questione. E forse è proprio su questo che scommette in queste ore il leader israeliano. «Netanyahu ha subito fatto mostra di stare al gioco, cosa in cui è maestro: ha accettato di mandare una delegazione a Doha per riprendere i negoziati. Cercherà con ogni probabilità di prendere tempo, sapendo che entro 72 ore Trump avrà lasciato la regione e magari avrà già altro per la testa», prevede Goren. Eppure è difficile che questo viaggio non lascerà qualche traccia sull’agenda di politica estera Usa, nota ancora Lerman. «Sono turbato, e non sono il solo in Israele, dalla vicinanza di Trump col governo del Qatar, Paese che ospita sì la più importante base Usa nella regione, ma che è pure quello che finanzia Al Jazeera, ha sostenuto e continua a sostenere attività terroristiche». Con tutto il rispetto per Gaza, batte il ferro l’analista militare, il dossier vitale n° 1 per Israele resta quello del programma nucleare iraniano, che non si può non considerare un «progetto militare» di un regime intriso di fanatismo. Se Trump dovesse tornare dal tour nel Golfo rafforzato nell’idea che in fondo si può venire a patti con l’Iran, e magari pure con la nuova Siria di Al-Jolani, il disegno regionale di sicurezza pazientemente costruito per anni da Netanyahu potrebbe crollare come un castello di carte, avverte preoccupato il suo ex consigliere.

Foto di copertina: EPA/SHAWN THEW | Donald J. Trump con Benjamin Netanyahu all’ingresso della Casa Bianca prima del bilaterale dello scorso 7 aprile

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