Ultime notizie Chiara PoggiDonald TrumpIranMaturità
POLITICACgilLavoro e impresaReferendumSicurezza sul lavoro

Flop referendum? Intervenga il governo invece di festeggiare. Il Jobs act già corretto da troppe sentenze, e ora è un vero caos di norme

referendum definitivo dato quorum falasca
referendum definitivo dato quorum falasca
Sulle piccole aziende la Corte Costituzionale ha già mandato un avviso: o intervenite voi, o lo facciamo noi. Troppe regole diverse in casi particolari non vengono capite dagli investitori stranieri

Il referendum abrogativo sul Jobs Act si è chiuso con un dato inequivocabile: la partecipazione non ha raggiunto il quorum e, dunque, il progetto dei suoi ispiratori è tecnicamente fallito. La Cgil ha presentato i referendum come uno strumento per ripristinare diritti fondamentali, dando per acquisita l’equazione “quesito = diritto”. Ma la scarsa partecipazione popolare – al netto del periodo estivo, della campagna referendaria debole e della scarsa copertura mediatica – suggerisce che quel messaggio non è stato capito, oppure non è stato condiviso. Se davvero in gioco ci fossero stati diritti universali, sarebbe stato lecito aspettarsi una mobilitazione più ampia. Il fatto che ciò non sia avvenuto è un dato politico, prima ancora che giuridico. Detto questo, il Governo e la maggioranza che lo sostiene non possono limitarsi a cantare vittoria, perché il fallimento dei referendum lascia aperto un problema, quello di un ordinamento del lavoro disordinato e contraddittorio. 

Serve comunque un intervento sul caos normativo dei licenziamenti

La materia dei licenziamenti, in particolare, è oggi in una situazione di evidente caos normativo. Il combinato disposto tra le regole introdotte dal Jobs Act, le sentenze che ne hanno ridimensionato la portata, e le norme precedenti ancora parzialmente in vigore, genera un sistema frammentato, in cui è difficile orientarsi persino per gli addetti ai lavori. Basti pensare all’imbarazzo con cui molti giuristi – non militanti – hanno affrontato il quesito sul reintegro: votare sì o no era una scelta tutt’altro che ovvia, perché entrambe le opzioni portavano a un assetto imperfetto. Il sindacato, durante la campagna referendaria, ha costruito una narrazione netta, quasi ideologica: da un lato un mondo in cui esiste solo la reintegra (che sarebbe conseguito alla vittoria dei SI), dall’altro il mondo attuale, dominato dai licenziamenti indiscriminati. 

Regole diverse a seconda delle dimensioni aziendali non aiutano gli investimenti esteri

Una narrazione smentita dalla realtà, molto più sfumata, in cui convivono due normative quasi identiche ma con differenze importanti, applicate in modo alterno per ragioni casuali, spesso legate alla data di assunzione. Un sistema così poco razionale lascia sconcertato chi cerca certezze per investire o lavorare in Italia. Nella stessa azienda, per lo stesso fatto, due persone possono ricevere trattamenti giuridici completamente diversi solo perché sono state assunte in periodi diversi. Ora che non è passato il referendum, anche gli oppositori del quesito devono prendere atto che il problema rimane aperto in maniera drammatica, in quanto mina la credibilità e la competitività del nostro ordinamento. Anche nel caso delle piccole imprese l’incertezza resta. Nonostante la bocciatura del referendum, la soglia dimensionale (i famosi 15 dipendenti) è stata messa in discussione dalla Corte costituzionale, che ne ha rilevato la possibile irragionevolezza. Il legislatore ha scelto di ignorare il problema, ma quella norma – che separa diritti e tutele solo sulla base delle dimensioni aziendali – resta sotto minaccia di “sfratto” da parte del giudice più alto del nostro ordinamento. Anche in questo caso, quindi, non basta prendere atto che nulla cambia: bisognerà intervenire presto, prima che lo facciano i giudici. 

Non sono i contratti a termine il problema, ma le false partite Iva e i co.co.co mascherati

Diverso, ma non meno spinoso, è il tema del contratto a termine. L’elettorato non ha condiviso l’allarme del sindacato, che pretendeva di indicato nella “causale” il baluardo contro il precariato. È stato un errore di comunicazione: la precarietà vera non sta nel contratto a termine in sé, che almeno garantisce retribuzione e contribuzione, ma nelle false partite Iva, nelle co.co.co. mascherate, negli appalti illeciti. Lì si gioca la partita vera, non su uno strumento che già oggi – se ben usato – offre un minimo di protezione. E anche su quel tema, c’è bisogno di un’azione politica concreta, che vada oltre la semplice negazione del referendum.

Sugli appalti più che altre regole servono soprattutto controlli sulla sicurezza

Infine, la questione della responsabilità solidale negli appalti. Tema serio, ma affrontato con l’illusione che una norma possa sostituirsi a ciò che non fanno milioni di imprese e lavoratori: rispettare davvero le regole sulla sicurezza. Regole che già esistono, ma troppo spesso restano lettera morta, con troppi datori di lavoro e lavoratori che non applicano le misure di sicurezza. In conclusione: il referendum è finito, la Cgil ha perso, ma il Governo e la maggioranza devono sfuggire dalla tentazione di festeggiare, perché i quesiti trattavano – in modo che non ha convinto – problemi che invece sono aperti e irrisolti. 

leggi anche