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Fabrizio Moro racconta il nuovo disco: «Mi sono chiesto se mi fossi rotto di continuare» – L’intervista

23 Novembre 2025 - 21:03 Gabriele Fazio
Il cantautore romano 50enne smentisce anche un possibile ritorno al Festival di Sanremo: «Sanremo è cambiato - dice - è diventato sempre più uno spettacolo divisivo e sempre meno una gara che ha a che fare con la tradizione della musica italiana, come ho sempre visto io. Questa roba qui mi spaventa, ho la sensazione che non basti più avere una bella canzone per andare a Sanremo»

Non ho paura di niente non è solo il titolo del nuovo album di Fabrizio Moro, il primo di inediti dopo sei anni, al momento disponibile solo in formato fisico, il decimo della carriera del 50enne romano, ma anche, si ha l’impressione, una dichiarazione di intenti, una forte presa di coscienza rispetto l’uomo e l’artista.

Nove tracce intrise di quella poetica schietta e onesta, diremmo quasi popolana, altamente sentimentale e quadrata, sicuramente solida ed efficace. D’altra parte, come racconta a Open, Moro non si è mai allontanato dal suo ambiente d’origine o, forse sarebbe più appropriato dire, non ha mai preso le distanze dalle proprie origini. «Io continuo a frequentare il mio bar – racconta – le persone che ho sempre conosciuto, e vivrò così per tutta la vita, perché a me piace stare così. Non vivo il mio ambiente, ho pochissimi amici nel mio ambiente, ne ho quattro, non me ne sono fatti altri, perché faccio poca televisione, sto poco in giro, non vado in ristoranti».

In questo momento sulle piattaforme si trovano solo tre brani del disco (Scatole, Non ho paura di niente, In un mondo di stronzi), presumibilmente il resto arriverà a strettissimo giro.

Cosa si devono aspettare i fan di Fabrizio Moro da questo disco?
«Quello che dovrebbero aspettarsi da ogni disco e da ogni artista: sincerità. Perché è attraverso la sincerità che poi si arriva nel profondo. Questo è un disco che è stato cercato fortemente, perché arriva in un momento in cui tutto quello che girava, e che gira, intorno alla musica mi aveva un po’ deluso.

Parliamo di un periodo di tempo che va dal post-Covid fino allo scoppio esagerato di questa bolla della musica digitale, dal 2023 al 2025, e che i cantautori della mia generazione, quelli che vanno dai 40 ai 50 anni, hanno sofferto un po’ più degli altri. Perché non abbiamo né la stazza dei vecchi, che hanno avuto la possibilità di mettere da parte un pacchetto di canzoni elevato, né la scioltezza dei ragazzi che si sono allineati a questo nuovo metodo di comunicazione»

È cambiato tanto, vero?
«Siamo un po’ in mezzo, figli di nessuno, né di un’epoca né dell’altra. Per chi è nato in un contesto storico in cui i dischi si facevano in studio di registrazione e ci si rimaneva per qualche anno, perché io mi ricordo che ogni disco che ho fatto è nato in questo modo, trovarsi catapultati in un’epoca completamente diversa non è stato semplice.

Questo mi ha portato ad un esame di coscienza, mi sono chiesto se volevo continuare a fare questo mestiere oppure se mi fossi rotto il ca**o, perché comunque le dinamiche sono completamente cambiate. E questa è una domanda che si fanno tanti artisti della mia generazione, lo so perché mi confronto, ci sentiamo, ne parliamo, ci sfoghiamo»

E la risposta?
«Io credo che poi la frustrazione interiore che ho provato nel pormi questa domanda, dopo 25 anni di carriera, durante i quali ho costruito tante cose belle che mi hanno anche svoltato in maniera positiva la vita, comunque è servita nella ricerca delle 40 canzoni che ho scritto (per poi sceglierne 9). Ci ho messo dentro tanta voglia di riemergere, anche grazie alle persone che ho incontrato, ai ragazzi che suonano con me da vent’anni.

In questi momenti di depressione, chiamiamoli così, la compagnia che hai intorno ha un effetto determinante. La BMG, per esempio, che è la mia casa discografica attuale, ha giocato un ruolo importantissimo in questa situazione; ho trovato una squadra di persone che mi ha riportato indietro nel tempo, mi sono messo seduto qui e ho ricominciato a parlare di musica. Così ho ritrovato la passione e la voglia che avevo perso»

Effettivamente 9 è un numero particolare su 40 canzoni scritte… ma non è che la decima te la sei conservata per Sanremo?
«Ci ho pensato ogni anno in questi anni, perché poi il Festival fa parte della mia cultura musicale, oltre al fatto che comunque attraverso il festival ho avuto l’opportunità di far conoscere le mie canzoni al grande pubblico e di cambiare la mia vita, è un contesto che continuerò ad amare per sempre.

Però c’è una cosa che va valutata: anche Sanremo è cambiato, è diventato sempre più uno spettacolo divisivo e sempre meno una gara che ha a che fare con la tradizione della musica italiana, come ho sempre visto io. Questa roba qui mi spaventa, ho la sensazione che non basti più avere una bella canzone per andare a Sanremo»

Una paura nuova quindi?
«Mentre scrivevo brani come Portami via o Non mi avete fatto niente, pensavo che avrei avuto la possibilità di andare a cambiare la mia vita con queste canzoni, e in effetti è successo sempre. Ecco, questa sensazione qui non ce l’ho più, perché è tutto molto legato al costume, all’immagine, all’estetica, all’Eurovision, ai tempi televisivi. Questa non è una critica, è proprio un dato di fatto.

Ti sto elencando queste cose perché queste cose mi spaventano. Quindi tornerei a Sanremo soltanto nel caso in cui riuscissi a trovare un compromesso musicale tra quello che è diventato oggi il Festival e quello che è diventato oggi Fabrizio Moro. Allora se uscisse un’idea così la proporrei a Carlo o al prossimo direttore artistico, altrimenti no»

La classica “canzone giusta” per Sanremo… Non ti ha neanche consolato il podio dell’anno scorso, dove il pubblico comunque ha bocciato starlette, trapperini, eccetera, e poi ha premiato cantautori come Brunori, come Lucio Corsi…?
«Sanremo è una piccola parte della musica italiana, importante, però poi c’è tutto il resto ed è un po’ tutto legato a quello che accade dopo. Nel senso che poi, una volta che arrivi al podio, devi anche avere l’opportunità di esprimerla questa consacrazione.

È un momento, secondo me, particolarmente complicato, perché le vie di comunicazione sono sature, c’è troppo caos. Così, se decidi di partecipare ad un evento musicale, che è l’evento più importante che c’è in Italia, secondo me devi avere un’idea giusta per poter accendere un interruttore abbastanza luminoso, perché sennò poi, anche se vai sul podio, finisci nel marasma»

Ti senti maturato, come uomo e come artista, in qualcosa in particolare in questi ultimi due anni?
«Mi sento maturato anche rispetto a ieri, dove mi ero incazzato per una cosa e oggi ci ho ripensato e ho detto “No, ho sbagliato”. Questa è l’età della maturità, quest’anno ho compiuto 50 anni, quindi c’è ancora l’istinto del trentenne, però poi c’è il vecchietto dentro che dice “Aspetta un attimo”. In questo disco, per esempio, non trovo più una certa rabbia, ritrovo un Fabrizio anche melodicamente più spensierato rispetto a tanti altri album precedenti.

C’è una sorta di leggerezza d’animo, anche se per trovarla questa leggerezza d’animo poi c’è voluto tanto mal di fegato, però ho capito in questo momento che per me era la cosa migliore, mettere questa leggerezza d’animo in tante canzoni, come per esempio in Sabato, in Scatole, in Un mondo di stronzi. E quando hai questo stato d’animo ti esprimi anche in maniera diversa, canti in maniera diversa, se tu ti senti un po’ più sereno con te stesso e con il mondo, ti vengono delle melodie diverse. Ci ho ritrovato tante cose del Fabrizio adolescente in questo disco qui, forse perché l’ho scritto nel primo appartamento dove ho vissuto»

Cos’è che ti piace di più di questo disco?
«La semplicità e la leggerezza delle melodie, che poche volte ho avuto. Perché io stavo sempre lì, da Pensa a Portami via, che è una canzone d’amore comunque molto intensa, con delle frasi e un modo di raccontare quelle robe lì, che comunque avevano sempre a che fare con il malessere profondo interiore. Qui c’è malessere in alcune canzoni, però c’è anche molta leggerezza, dal punto di vista melodico è un disco molto leggero rispetto agli altri e questo è un punto a favore di questo album qui, perché credo che ci sia anche bisogno di questo adesso.

Star lì a raccontare le cose con un patema d’animo troppo sofferente, in questo momento, non mi avrebbe fatto bene. Ho proprio bisogno di canzoni quasi da spiaggia, con gli accordi semplici e con quel tipo di intensità lì. Questa è la cosa che mi piace tanto di questo disco: me lo risento in macchina»

In Sabato sviluppi un confronto con tuo figlio, ma quali sono gli errori che tu hai fatto e che non vorresti che rifacesse tuo figlio?
«Gli errori che ho fatto sono stati errori di un adolescente che comunque non aveva troppi punti di riferimento, quindi sono errori che mi hanno portato a rallentare molto il mio processo evolutivo, umano e anche creativo a volte, cioè ho perso tanto tempo dietro a cose che erano inutili. Io spero che mio figlio non faccia gli stessi errori, anche se lo vedo un po’ più posato rispetto a me»

Quali erano i punti di riferimento che ti mancavano?
«Mio padre con me non ha mai giocato al calcetto, non ha mai scambiato due chiacchiere, non ha mai giocato alla playstation, non ha mai ascoltato una canzone mia. Io con mio figlio non sono un amico, perché non mi piace essere amico di mio figlio, deve esserci sempre un tipo di distacco, però riesco a leggerlo per quanto posso leggerlo, per quello che mi fa leggere.

Rispetto a mio padre ho fatto una vita molto più piena, quindi quando vado a raccontare a mio figlio che la droga fa male, mio figlio ci crede, perché sa che il papà comunque ha avuto un trascorso di un certo tipo e si fida di quello. Quando mio padre veniva da me e mi diceva “Non ti devi fare le canne”, io dentro di me pensavo “Ma che cazzo ne sai tu?”. Quindi è un rapporto completamente diverso»

Tuo figlio come vive l’essere figlio di un personaggio famoso?
«Io non ho un rapporto col successo, perché comunque, ti giuro, siamo molto tranquilli in questa cosa. Io continuo a fare la vita con tutte le agevolazioni che abbiamo, perché comunque stiamo bene, siamo benestanti. Quando avevo la sua età io non ero un benestante, vivevo un altro tipo di contesto sociale, però fondamentalmente la mia famiglia, le mie radici, erano e sono rimaste quelle.

Quindi ho mio padre che è un borgataro, mia mamma è così, sono tutte e due di San Basilio, i miei nonni sono così, i miei fratelli sono così, i miei amici sono così, quindi mio figlio vive in gran parte la stessa realtà che ho vissuto io. Pure lui ha scelto di crescere nel quartiere dove sono cresciuto io, perché va al liceo lì, perché ha gli amici lì, perché ha i miei parenti lì, tutti gli zii lì. Questa percezione del successo non la vive in pieno, perché non siamo una famiglia che va d’inverno alle Maldive o in settimana bianca.

Noi stiamo a casa, apriamo una bottiglia di vino tutti insieme, guardiamo la partita, con quello che si ubriaca, con quello che litiga con quell’altro. Noi facciamo sempre la stessa vita, sempre. Non abbiamo mai avuto eccessi di lusso o di sregolatezza legati a quello che succede nella mia carriera. È tutto molto semplice, tutto molto lineare.

Io continuo a frequentare il mio bar, le persone che ho sempre conosciuto, e vivrò così per tutta la vita, perché a me piace stare così. Ho pochissimi amici nel mio ambiente, ne ho quattro, non me ne sono fatti altri, perché faccio poca televisione, sto poco in giro, non vado nei ristoranti. E i miei figli, stando con me, vivono quello che vivo io»

Questo è il decimo album in studio, che è importante come traguardo: se guardi indietro alla tua carriera, qual è il primo ricordo speciale che ti viene in mente?
«Il ricordo più strano è quando ho vinto Sanremo e nel coro c’era il fratello del capo del guardaroba dove lavoravo. Io lavoravo in un albergo, il mio capo si chiamava Paolo D’Angelo, ogni volta che finivo di portare la biancheria in orario mi faceva un applauso, perché io ero molto svelto al lavoro, perché non vedevo l’ora di andarmene.

Quando il grande Pippo Baudo proclamò la mia vittoria sono sceso per quelle scale, mi sono girato e ho visto il fratello del capo del mio guardaroba, con la stessa faccia, perché si somigliavano molto, che, coincidenza, era un corista di Sanremo, che mi faceva l’applauso. Questo è il ricordo più strano che ho della mia carriera»

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