Croazia, Germania, Romania, Grecia, Spagna, Estonia. Sono soltanto alcuni dei Paesi dove quest’anno in vista delle elezioni europee, hanno trovato spazio partiti politici differenti rispetto agli schieramenti tradizionali di destra e di sinistra, euroscettici o euroentusiasti che siano.
Partiti minori, certamente, ma che in un contesto in cui i due schieramenti principali in sede al Parlamento europeo – il Partito popolare europeo di centrodestra (Ppe) e il Partito del socialismo europeo (Pse) – vedranno con tutta probabilità ridotta la loro presenza, potrebbero acquisire maggiore importanza.
Partiti e movimenti selezionati secondo criteri cronologici – hanno in comune il fatto di essere stati fondati recentemente – e di potenziale di crescita, che abbiamo cercato di raccontarvi negli ultimi mesi.
Non si tratta di una lista esaustiva – manca per esempio il Forum per la democrazia, il partito euroscettico olandese che ha spodestato il Partito per la Libertà di Geert Wilders – ma che ha come obiettivo quello di raccontare le peculiarità di questa stagione elettorale che ha visto crescere in numero e in varietà l’offerta politica. Insomma, al di là delle alchimie parlamentari, sono un ottimo termometro dello stato dell’Unione.
E quindi anche della voglia di cambiamento, di soluzioni più radicali,
rispetto ai partiti esistenti, come risposta alle esigenze dei cittadini e alle sfide dell’Unione. Non sorprende, visto la maggiore maturità della democrazia federale ma anche visto le insoddisfazioni, il disagio e gli insuccessi che hanno caratterizzato gli ultimi cinque anni.
Rispetto alla precedente tornata elettorale del 2014, le politiche d’austerità – con quello che hanno comportato in Paesi come l’Italia – con la creazione di un Governo tecnico – e in Grecia – dove è stato implementato il bail-out – sono passate in secondo piano di fronte alla crisi migratoria nel Mediterraneo e, più recentemente, l’emergenza climatica.
Radicalismo e idealismo, anti-immigrazionismo e digitalismo, ambientalismo e negazionismo climatico, più o meno integrazione: le ideologie non mancano, come non mancano neppure i tentativi di ridefinire sinistra e destra in chiave europea e internazionale.
Basta pensare alla lega di sovranisti di Matteo Salvini che si è posta il compito di federare diversi partiti euroscettici e nazionalisti europei, o alla rete internazionale di DiEM25, il movimento di Yanis Varoufakis, ex ministro delle finanze della Grecia.
La maggior parte dei partiti potrebbe meritarsi l’epiteto «populista», per il modo provocatorio, a volte conflittuale, in cui si pongono nei confronti «dell’establishment». Ma si tratta di una parola inadeguata che non rispecchia appieno le qualità delle competenze, l’originalità nella proposta politica e lo spirito costruttivo che distingue una parte di questi partiti.
Come non rispecchia neppure i punti in comune che hanno con altri partiti considerati d’establishment o mainstream, come per quanto riguarda le politiche migratorie. Populisti per finta o a metà, nei prossimi giorni scopriremo se riusciranno anche a diventare più popolari.
I movimenti
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