L’incidente a Severodvinsk e i timori di un riarmo nucleare

Prosegue la nostra analisi dei fatti di Severodvinsk in Russia, assieme al fisico nucleare Enrico D’Urso

Ogni volta che troviamo un nuovo indizio sull’incidente nucleare avvenuto l’8 agosto a Severodvinsk in Russia, questo ci porta a nuove domande, al momento prive di una risposta certa. Pian piano si delinea però un quadro che va ben oltre il fenomeno in sé, riportandoci a climi da riarmo nucleare che pensavamo ormai relegati al passato.


Si comincia così a parlare di un mini-reattore per armi nucleari, come il 9M730 Burevestnik, di cui il fisico nucleare Enrico D’Urso anticipava a Open qualche dettaglio, parlando dell’ipotesi più probabile a riguardo. Esiste anche un equivalente americano il cui motore venne testato a terra negli anni ’60, nell’ambito del progetto Pluto


INCIDENTE NUCLEARE NEL MAR BIANCO PEGGIORE DI CHERNOBYL, MA COSA E' SUCCESSO?Leggo su molte testate molte notizie, e…

Posted by La Fisica che non ti Aspetti on Wednesday, August 14, 2019

L’enigma delle radiazioni in Norvegia

«La fragilità del sistema americano era dovuta al fatto – continua D’Urso tornando all’incidente in Russia – che tutti i sistemi di sicurezza erano idraulici e ad alta pressione e sottoposti a notevole stress termico. Se qualcosa si fosse rotto, non ci sarebbe stato modo di spegnere il reattore prima della fine del combustibile. Cioè (tipicamente) dopo alcuni mesi. Sempre che fosse stato in volo, altrimenti si sarebbe fuso sul banco di prova».

Il pericolo è – come sempre in questi casi – che possano esserci contaminazioni fuori dai confini russi. In Norvegia nella base di rilevamento di Svanhovd sono stati registrati tra il 9 e il 12 agosto lievi aumenti di radioattività, ma gli esperti escludono che vi sia pericolo, inoltre non è stato ancora accertato se il fenomeno possa legarsi all’incidente avvenuto in Russia.

Sappiamo che è possibile sempre rilevare radioattività e misurarla, anche quando si presenta a livelli infinitesimi, come avevamo spiegato nel caso dei radionuclidi scoperti nei ghiacci artici. Inoltre possiamo distinguere tra radionuclidi naturali e quelli derivati da attività nucleare.

Per esempio, se i norvegesi avessero rilevato unicamente la presenza di qualche radionuclide presente naturalmente in natura (ma questo non è realmente successo), non potremmo comunque escludere niente: possiamo però distinguere tracce radioattive naturali (come il radon) da quelle sicuramente derivate da attività nucleare (cesio o plutonio), ma non possiamo distinguere l’origine dello stesso isotopo di radon (naturale o artificiale).

Sappiamo invece che è stata rilevata la presenza di iodio. Anche in questo caso però occorrerebbero ulteriori analisi approfondite. Lo iodio viene ottenuto artificialmente in diversi modi, potrebbe essere il prodotto della fissione nucleare, oppure si spiegherebbe con l’attività di industrie farmaceutiche nei dintorni.

Forse i norvegesi temporeggiano per eventuali indagini dovute a dispersioni anomale attribuibili a “Big Pharma”? No, perché sono fenomeni sotto controllo che accadono normalmente. 

«Queste rilevazioni di iodio ci sono 6-8 volte lʼanno – spiega il fisico DʼUrso –
ne è successa una anche un paio di anni fa in Ungheria. Forse in Russia sono meno scrupolosi (la regione interessata è meno popolosa, quindi i requisiti sono inferiori), e hanno rilasci più frequenti. O forse quello ungherese è finito sui giornali perché era più grosso del solito. Non ho dati in mio possesso.

Tempo fa in laboratorio ho analizzato delle noci brasiliane, presentavano tracce di Cesio137, che è di assoluta provenienza umana. Era in quantità microscopiche ma rilevabili, e nessuno se ne preoccuperebbe data la scarsissima quantità».

Dal momento che le informazioni scarseggiano, nulla vieta che nella viralità della notizia possa celarsi un mostrare i muscoli da parte di Mosca, per inviare un messaggio ai rivali di Washington. 

Forse ci preoccupiamo troppo, ma è anche vero che pochi si preoccupano di chi si trova laggiù, specialmente chi è addetto ai soccorsi e al recupero dei frammenti del razzo. A tal proposito esistono altre indiscrezioni.

«Viene riportato anche l’arrivo di un mini-sottomarino per il soccorso – spiega il Fisico – adibito al recupero dei resti del razzo e del supporto da cui doveva partire il missile. Tuttavia per gli operatori non sussiste nessun rischio sanitario. 

Si tratta di operazioni fatte da remoto. Il sottomarino offre inoltre una notevole protezione per via dello spessore dello scafo, e in aggiunta a questo è presente anche lʼacqua: mezzo eccellente per schermare le radiazioni. Ne servono spessori maggiori rispetto al piombo per avere una protezione equivalente, ma è un mezzo che scherma efficacemente le radiazioni ionizzanti».

Una nuova corsa agli armamenti?

Vediamo ora gli aspetti geopolitici della vicenda. Se si è trattato davvero di un incidente di lieve entità, incurioscisce il fatto che stia avendo comunque attenzione mediatica. Gli Stati Uniti infatti si sono ritirati dall’accordo di non proliferazione nucleare che accompagnò la fine della Guerra fredda. 

Questo passo indietro dell’amministrazione di Donald Trump non è avvenuto certo in maniera “cordiale”, bensì attraverso affermazioni aggressive da entrambe le parti. Le dichiarazioni di Putin agli inizi di agosto oggi fanno riflettere parecchio:

«Al fine di evitare il caos senza regole, limiti e leggi, bisogna ancora una volta soppesare tutte le possibili conseguenze pericolose e avviare un dialogo serio senza ambiguità … Siamo pronti per questo … La Russia sarà costretta ad avviare lo sviluppo di missili simili».

Diversi analisti temono il ritorno a una nuova «corsa agli armamenti». Sono discorsi che si protraggono almeno dal 2018. Quando la Russia annunciò i suoi test su un missile da crociera a propulsione nucleare, venne trasmesso anche un video dove era possibile vedere effettivamente un missile in volo, mentre Putin stava a guardare attorniato dai suoi generali. 

Il filmato venne geolocalizzato, così abbiamo potuto stimare che il sito di test potesse trovarsi nell’arcipelago artico di Novaya Zemlya. Si è trattato di una indagine non facile.

«Una volta abbiamo incaricato un satellite di scattare una foto di un sito vicino che era stato utilizzato per test nucleari e abbiamo aspettato settimane prima che il satellite passasse sopra di loro, scattando foto di soffici nuvole bianche – spiegano gli analisti di Foreign policy – Entro il 2018, tuttavia, avevamo le immagini e siamo riusciti a trovare il sito di lancio e le aree di supporto. 

Il sito di lancio stesso era molto distinto: consisteva in un rifugio ambientale in cui gli scienziati potevano preparare il missile prima del suo lancio. Il rifugio è stato montato su rotaie in modo da poter essere ritirato quando la squadra era pronta a testare il missile. E per qualche ragione, tutte le attrezzature sono apparse in diversi container blu».

Non è quindi una grossa scoperta: i test erano già monitorati, senza che i russi potessero farci niente. Del resto è dai tempi del progetto Mogul che gli americani riescono – anche con mezzi piuttosto “rozzi” – a intercettare i test che avvengono in Russia.

Secondo la codificazione Nato i missili Burevestnik sono classificati come «X-9 Skyfall», in Occidente parliamo quindi dei «test dello Skyfall» quando ci riferiamo al collaudo dei nuovi missili nucleari russi.

A un certo punto, durante l’estate 2018, i russi sembrano accorgersi di essere “osservati” e nella comunità di Intelligence americana (l’insieme delle agenzie di spionaggio degli Usa) si pensa che lo Skyfall fosse stato accantonato a seguito di fallimenti precedenti.

Invece a quanto pare il missile da crociera russo è ancora “vivo e vegeto”, trasferito nel suo nuovo rifugio nella base di Nenoksa (Nyonoksa), a poco più di 30 chilometri da Severodvinsk, cosa che – col senno di poi – era sotto ai nostri occhi, o meglio, sotto quelli di Google Earth.

Google Earth/Nenoksa dista poco più di 30 chilometri da Severodvinsk.

Foto di copertina: Google Earth/Base militare di Nenoksa in Russia.

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