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Coronavirus, le accuse di Conte all’ospedale di Codogno: giuste o no? Cosa ho visto io, inviato di Open il giorno del “paziente uno”

25 Febbraio 2020 - 13:43 Felice Florio
Non tutti i membri del personale indossavano le mascherine, le conversazioni avvenivano a distanza ravvicinata e le persone erano libere di attraversare molte aree dell'ospedale senza controllo

«C’è stata una gestione a livello di una struttura ospedaliera non del tutto propria, secondo i protocolli prudenti che si raccomandano in questi casi, e questo sicuramente ha contribuito alla diffusione. Ma al di là di questo continuiamo con la massima cautela e massimo rigore». A dirlo è stato ieri, 24 febbraio, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, riferendosi con ogni probabilità al Civico ospedale di Codogno. È in quella struttura che è stato ricoverato, nella notte tra giovedì 20 e venerdì 21 febbraio, il primo paziente positivo al Coronavirus a essere stato contagiato in Italia.

Il 38enne, uno sportivo in ottima salute del Lodigiano, è finito in terapia intensiva «in condizioni gravissime», mi ha spiegato il direttore sanitario Vincenzo Filippini. Per parlarci, la mattina del 21 febbraio, ho attraversato in libertà diverse aree dell’ospedale. Arrivato alle 8.50 davanti ai cancelli del pronto soccorso, non ho trovato nessuno a dare indicazioni, tantomeno erano presenti dei cartelli a segnalare la chiusura del pronto soccorso – saranno affissi due ore dopo, verso le 11.00.

Le tendine degli sportelli per l’accettazione erano abbassate: dietro, il personale era visibilmente preoccupato. Alcuni di loro non indossavano la mascherina. In segreteria mi hanno detto che, per qualsiasi informazioni, avrei dovuto rivolgermi al direttore sanitario. Il suo ufficio si trovava al secondo piano dell’edificio. Nel frattempo, seppure alla spicciolata, le persone continuavano ad arrivare al pronto soccorso, bussavano sui vetri degli sportelli apparentemente chiusi per ricevere risposte e si muovevano senza protezioni per il viso e per il corpo.

Le mascherine

Ho sentito due medici discutere di una sorta di protesta partita da un reparto: i pazienti lamentavano che non erano state consegnate le mascherine, mentre il personale sanitario girava con il dispositivo. «Solo in un secondo momento – ha detto un medico a un suo collega, abbassando la mascherina per farsi comprendere più facilmente -, hanno iniziato a distribuire le mascherine anche ai pazienti».

All’ufficio relazioni col pubblico del pronto soccorso è stato allestito un centro di smistamento di mascherine e tute di plastica per il personale. Non le consegnavano, però, ai giornalisti e alle persone che arrivavano al pronto soccorso, ufficialmente chiuso, di fatto accessibile a tutti. Per parlare con il direttore sanitario, è stato sufficiente arrivare al secondo piano dell’ospedale, passando per il reparto di pneumologia al primo. Nessuno fermava nessuno, chiunque poteva raggiungere stanze, uffici, aree d’attesa.

Le telefonate ai colleghi per invitarli alla quarantena

Che la situazione non fosse totalmente sotto controllo l’ho capito verso le 10.00: allora sono iniziate le telefonate ai dipendenti entrati in contatto, senza protezioni, con il paziente di 38 anni: gli veniva chiesto di restare a casa e non presentarsi al lavoro. «Tutti quelli che sono stati a stretto contatto con il paziente positivo al coronavirus devono restare a casa 14 giorni con la mascherina. Anche gli operatori dell’ospedale che hanno incrociato il paziente ieri non dovranno venire a lavoro per due settimane. Misuratevi la febbre due volte al giorno», ordinava il direttore sanitario.

Lo stesso personale dell’ospedale non sapeva come muoversi: in molti erano barricati nei propri uffici aspettando le mascherine. «Dovete andare voi a prenderle all’urp», diceva qualcuno. Non mancavano gli sprovveduti che uscivano dalle varie stanze, interagivano con altre persone senza mascherine e si raccoglievano in gruppetti lungo i vari corridoi per discutere senza osservare la distanza di sicurezza. Medici, infermieri, persone comuni.

Spuntano gli avvisi sulla chiusura del pronto soccorso

Quando hanno cominciato a diffondersi le notizie che i contagiati potevano essere più di uno, la superficialità di molti nell’abbassarsi la mascherina per facilitare la conversazione è sparita. I medici e il personale hanno limitato l’interazione con le persone che chiedevano informazioni o mascherine e, intorno alle 11.00, hanno cominciato a tappezzare la struttura di fogli A4 con su scritto “Pronto soccorso chiuso“.

Aumentava l’ansia dei dipendenti che domandavano ad altri: «Dobbiamo restare qui o tornare a casa?». Intanto potevo ancora girare liberamente per diverse aree dell’ospedale, senza che i vari ambienti fossero stati sanificati: solo alle 12.00 i dipendenti della Work in Progress Bio-Medical termineranno la consegna dei macchinari in grado di sanificare le aree dell’ospedale con l’atomizzazione del perossido.

La situazione, alle 13.00, è diventata più seria e quasi nessuno si è preso la licenza di abbassare la mascherina per parlare con qualcuno. Solo allora mi sono arrivati gli inviti ad allontanarmi dall’androne del pronto soccorso. A fine giornata, saranno cinque i membri del personale sanitario dell’ospedale di Codogno risultati positivi al coronavirus.

«Proprio perché sappiamo che la situazione all’ospedale di Codogno non era perfettamente sotto controllo, la inseriamo nella lista delle persone con sospetto di positività al Coronavirus, la mettiamo nel database per il controllo con il tampone e le raccomandiamo di restare in casa per 14 giorni», mi ha detto un medico dell’area emergenza sanitaria del 112. Oggi, dopo essere stato il 21 febbraio all’ospedale di Codogno, trascorro il quarto giorno in quarantena.

Il parere degli esperti

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