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Coronavirus. Un nuovo studio dimostra che la vitamina D riduce il contagio? No!

Alcune testate parlano di uno studio, ma si tratta di una raccomandazione e non prova che la vitamina D prevenga il contagio

Il 26 marzo 2020 sono stati pubblicati due articoli sulla vitamina D e il Coronavirus che hanno destato qualche dubbio. Gli articoli sono quello di Repubblica dal titolo «Coronavirus, studio dell’Università di Torino: assumere più vitamina D per ridurre il rischio di contagio» e quello de La Stampa dal titolo «Coronavirus, lo studio dell’Università di Torino: la vitamina D può ridurre il rischio contagio».

Leggendo il sommario di Repubblica si potrebbe comprendere a chi potrebbe giovare questa vitamina, ossia coloro che hanno un elevata prevalenza di Ipovitaminosi D. Il dubbio rimane, e cioè: può ridurre il rischio di contagio? Inoltre, si tratta di uno studio scientifico con tanto di peer-review pubblicato in una rivista scientifica?

Il documento

Si tratta di un lavoro svolto dai professori Giancarlo Isaia e Enzo Medico, i cui risultati sarebbero stati giudicati molto interessanti dagli esperti dell’Accademia di Medicina di Torino. Online, caricato su Lavocediasti.it, è riscontrabile un documento PDF del 25 marzo 2020 a firma proprio dei due professori.

Leggendo bene il contenuto si comprende che si tratta di una raccomandazione, non di uno studio sottoposto a peer-review e pubblicato in una rivista scientifica. Utilizzare nei titoli o scrivere in un articolo di giornale che si tratta di uno studio risulta errato, si potrebbe parlare piuttosto di un preprint, ma c’è un altro problema: il documento non parla di prevenzione per evitare il contagio.

Di cosa parla il documento

Il titolo del documento è «Possibile ruolo preventivo e terapeutico della vitamina D nella gestione della pandemia da COVID-19» che inizia così:

In riferimento alle misure utili per contrastare gli effetti della pandemia da Coronavirus, riteniamo opportuno richiamare l’attenzione su un aspetto di prevenzione, meno noto al grande pubblico, l’Ipovitaminosi D il cui compenso, in associazione alle ben note misure di prevenzione di ordine generale, potrebbe contribuire a superare questo difficile momento.

Sulla base di numerose evidenze scientifiche e di considerazioni epidemiologiche, sembra che il raggiungimento di adeguati livelli plasmatici di Vitamina D sia necessario anzitutto per prevenire le numerose patologie croniche che possono ridurre l’aspettativa di vita nelle persone anziane, ma anche per determinare una maggiore resistenza all’infezione COVID-19 che, sebbene con minore evidenza scientifica, può essere considerata verosimile.

Bisogna fare attenzione a cosa scrivono i due professori, perché non parlano di prevenzione per evitare il contagio. All’inizio del documento citano il problema dell’Ipovitaminosi D, ovvero una carenza della suddetta vitamina e l’interesse dei due professori è quello di prevenire patologie croniche legate a questo problema, dunque evitare ulteriori complicanze nel caso di infezione Covid-19. Quella posta dai due professori, in fin dei conti, è una raccomandazione giustificata per un problema comune in Italia:

Questa raccomandazione è utile per la popolazione generale, ma è particolarmente pregnante per i soggetti già contagiati, i loro congiunti, il personale sanitario, gli anziani fragili, gli ospiti delle residenze assistenziali, le donne in gravidanza, le persone in regime di clausura e tutti coloro che per vari motivi non si espongono adeguatamente alla luce solare.

Molti contagiati hanno questa carenza?

Attenzione! Non bisogna pensare che il Covid-19 causi una diminuzione della vitamina D nel corpo. Nel documento, alla voce «considerazioni epidemiologiche», si legge:

L’Italia è uno dei Paesi Europei (insieme a Spagna e Grecia) con maggiore prevalenza di ipovitaminosi D. Nel Nord Europa la prevalenza è minore per l’antica consuetudine di addizionare cibi di largo consumo (latte, formaggio, yoghurt ecc.) con Vitamina D

Inoltre:

In Italia, è stato dimostrato che il 76% delle donne anziane presentano marcate carenza di vitamina D, senza peraltro significative differenze regionali.

Essendo in gran parte anziane le persone ricoverate per Covid-19, risulta comprensibile che bisogni fare attenzione per evitare ulteriori complicanze.

Quali complicanze?

Nel documento leggiamo:

Concentrazioni ridotte di 25(OH)D aumentano il rischio di osteoporosi e delle cadute dell’anziano, ma si associano anche a tumori, malattie cardiovascolari, malattie autoimmuni, infezioni croniche dell’apparato respiratorio, diabete mellito, malattie neurologiche e ipertensione. Queste patologie causano maggiore mortalità, soprattutto se questi pazienti si ammalano di COVID-19

Previene il contagio?

Passiamo ai punti del documento che potrebbe aver suggerito ai giornali di parlare di prevenzione contro il Covid-19, ossia la sezione «Motivazioni scientifiche a supporto degli effetti antiinfettivi della Vitamina D», dove vengono elencate diverse review su come questa vitamina possa aiutare, nel ridurre l’incidenza di infezioni delle vie respiratorie e dei casi di influenza.

Purtroppo non si tratta di una semplice influenza. Nel documento viene proposto un preprint, quindi un lavoro che andrebbe preso con le pinze, siccome dovrebbe ancora passare il rigoroso processo di pubblicazione degli studi scientifici.

Il rischio

Come abbiamo visto in un caso americano, c’è il rischio che alcuni modi di comunicare possa portare alcune persone a intraprendere scelte sbagliate. Nel caso della vitamina D, come in precedenza della vitamina C e gli audio Whatsapp, qualcuno potrebbe pensare di assumerne in quantità nella convinzione che possa prevenire il contagio, mentre è bene che sia consultato il proprio medico invece di procedere con il “fai da te”. Il rischio? Lo leggiamo nel sito dell’Istituto Superiore di Sanità:

Un eccesso di vitamina D, al contrario, può causare calcificazioni diffuse negli organi, contrazioni e spasmi muscolari, vomito, diarrea.

I professori del documento semplicemente avvisano di come sia necessario prevenire l’ipovitaminosi nei pazienti anziani, integrando la vitamina. Ma gli autori ricordano anche che «può essere sintetizzata dalla cute», oppure assunta attraverso gli alimenti. Purtroppo questo non darà un aiuto rilevante a combattere la pandemia, gli stessi firmatari del documento ammettono che l’idea è verosimile, ma «con minore evidenza scientifica».

Conclusioni

Evitare ulteriori complicanze in caso di infezione di Covid-19: su questo si basa, in fin dei conti, la raccomandazione dei due professori riguardo a un problema comune in Italia – soprattutto nella popolazione anziana – che risulta essere quella più a rischio. La vitamina D, infatti e purtroppo, non previene il contagio dal nuovo Coronavirus.

Oltre a questo, le testate giornalistiche dovrebbero fare attenzione nella definizione dei documenti pubblicati da professori e scienziati. Uno studio scientifico, per essere definito tale, dovrebbe presentare la struttura di un normale paper scientifico, e affinché sia considerato attendibile deve essere sottoposto alla peer-review, in modo da essere pubblicato in una rivista scientifica, facendo attenzione che non sia «predatoria». Di studi non sottoposti a questo rigoroso processo ce ne sono tanti, troppi, e bisogna fare molta attenzione.

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