Quando Di Maio diceva che la regola dei due mandati è come le stagioni, non cambierà mai, e i giornalisti sono bugiardi

Sono serviti dieci anni per assistere alla metamorfosi ideologica del Movimento 5 Stelle e solo due per rimangiarsi due regole portanti

Gli iscritti alla piattaforma Rousseau hanno deciso, con il voto online, che la regola dei due mandati elettivi non ha senso per i politici locali. Un voto democratico, sempre sostenuto dal Movimento 5 Stelle, nella maggior parte dei casi con risultati conformi con quanto sponsorizzato dai big del partito, in particolare Beppe Grillo che grazie al suo «Daje» ha spianato la strada a Virginia Raggi per le prossime elezioni romane alla faccia di chi in passato lottava come un gladiatore contro il «terzo mandato elettivo», ma non ci sono più i gladiatori di una volta. Ecco il tweet di Luigi Di Maio del 31 dicembre 2018, destinato a far parte dei meme degli antagonisti per ricordare l’incoerenza del suo partito:


La regola dei due mandati non è mai stata messa in discussione e non si tocca. Né quest’anno, né il prossimo, né mai. Questo è certo come l’alternanza delle stagioni e come il fatto che certi giornalisti, come oggi, continueranno a mentire scrivendo il contrario.


Si chiama Movimento, ma si dice partito. Una definizione che non possono contestare ai giornalisti o a qualunque altro cittadino altrimenti dovrebbero contestare quelle parole che Gianroberto Casaleggio non ha mai smentito quando già nel 2015 si parlava della proposta di una deroga per la candidatura di Alessandro Di Battista a sindaco di Roma: «ogni volta che deroghi ad una regola praticamente la cancelli» e «siamo un Movimento, non un partito ed è fondamentale tenere le distanze e marcare le differenze».

Terzo, secondo, primo o «mandato zero» a parte, non sono mancate negli anni le contraddizioni e le incoerenze che normalmente gli attivisti del Movimento ricordano molto bene nel caso dei loro avversari politici (anche questi non scherzano). Visto che nel 2018 Di Maio sosteneva che i giornalisti «continueranno a mentire» sulla possibilità di una deroga, si apre un enorme vaso di Pandora sul rapporto tra il mondo del giornalismo e quello dei Movimento (e non solo, sia chiaro) dove i primi vengono denunciati dai secondi.

Una contraddizione perché il fondatore del Movimento 5 Stelle, il comico genovese Beppe Grillo, pubblicò nel 2009 nel proprio blog – sempre in accordo con Gianroberto Casaleggio – un articolo dal titolo «La querela contro la Rete» (scomparso dal blog, ma mantenuto nel sito ufficiale del partito) dove leggiamo:

La querela per diffamazione è sopravvissuta a tutte le riforme sulla Giustizia, alla depenalizzazione del falso in bilancio, al lodo Alfano, alla separazione delle carriere, al bavaglio all’informazione. La querela serve al potere. La querela è un’arma da ricchi. Usata per intimidire. Per tappare la bocca. Per togliere i mezzi economici all’avversario. Spesso con la ricerca del pelo nell’uovo, come ad esempio un mancato virgolettato in una frase.

La querela può essere penale o civile. Se va bene si infanga l’avversario e si porta a casa un piccolo tesoretto. Magari con la cessione del quinto dello stipendio di un povero diavolo. La querela per diffamazione va depenalizzata. E se si richiede un indennizzo economico, chi fa la querela dovrebbe depositare in anticipo l’intera somma richiesta su un conto a disposizione del Tribunale. Se perde la causa, il deposito servirà a risarcire il querelato. Troppo comodo infangare, spaventare e cavarsela con le sole spese processuali.

Di solito si querela la verità, mai la menzogna. Di solito chi querela sono i politici e i rappresentanti delle cosiddette istituzioni, mai i cittadini.

L’articolo è datato 9 agosto 2009, pochi mesi prima della fondazione del Movimento 5 Stelle al Teatro Smeraldo di Milano. Non erano ancora un partito, ma si apprestavano ad essere come quei partiti e politici che tanto criticavano. La diffamazione, che voleva depenalizzare, veniva evocata nel 2014 dallo stesso Grillo contro i giornalisti che proteggevano le loro fonti a seguito di articoli considerati diffamatori nei confronti del Movimento: «Le fonti non possono essere coperte, vanno citate nell’articolo o, in caso contrario, va fatto scattare in automatico il reato di diffamazione».

Beppe Grillo conosce bene le aule di tribunale in merito alle querele, dove lo abbiamo visto condannato in primo e secondo grado per aver diffamato il Prof. Franco Battaglia. Quest’ultimo aveva deciso di portare in Tribunale il comico genovese perché lo aveva definito «pagato dalle multinazionali» a seguito delle sue considerazioni «pro-nucleare» alla vigilia del referendum del 2011. Ignote, ancora oggi, le fonti che avrebbero portato il comico a dire ciò che ha detto in pubblico, ma è nota invece l’assoluzione in Cassazione grazie a quello strumento tanto contestato dal mondo grillino: quella prescrizione che nel 2015 definì nel suo blog «fallimento di Stato» e «l’ancora di salvezza dei delinquenti».

Ad essere stato coerente, invece, è Davide Casaleggio con la linea dettata dal Blog di Beppe Grillo del 2014. Il figlio del co-fondatore del Movimento 5 Stelle e Presidente dell’Associazione Rousseau, aveva querelato in sede civile l’ex direttore di Repubblica Calabresi e avrebbe chiesto la deindicizzazione degli articoli del 2017 riguardo un incontro tra lui e Salvini. I grillini, con Di Maio in prima linea, annunciarono querela contro la testata sostenendo che fosse una notizia falsa, dall’altro lato Calabresi rispose con parole che ricordavano un po’ la linea sostenuta dagli stessi grillini molto tempo prima: «in questa vicenda l’unico falso arriva dal M5S: attaccare Repubblica per cercare di nascondere la verità».

Davide Casaleggio, tuttavia, ha perso la causa contro l’ex direttore di Repubblica ed è stato costretto a pagare le spese processuali. Nell’articolo della testata del 14 agosto 2020 non si evince che la sentenza dimostri che ci sia stato o meno l’incontro contestato tra il denunciante e il leader della Lega. Al momento non è dato sapere a quanto ammontino le spese della causa, ma sarebbe curioso sapere cosa si saranno detti Davide Casaleggio e il suo avvocato, la stessa Caterina Malavenda che in un’intervista a Repubblica a giugno 2020 dove in merito alle cause temerarie contro i giornalisti aveva espresso il seguente pensiero:

Cause temerarie. La condanna a pagare un quarto del danno richiesto è una buona soluzione?

“Eccellente, se verrà applicata, perché esiste già una norma generale di analogo contenuto che i giudici fanno fatica a utilizzare. Se il tribunale accerterà dolo o malafede sarà obbligato a liquidare una somma a favore di chi ha subìto una lite temeraria e a quantificarla sulle somme spesso stratosferiche chieste ai giornalisti”.

Insomma, dalle prese di posizione per la depenalizzazione della diffamazione e l’abolizione della prescrizione si è passati alla querela per diffamazione contro i giornalisti e vincere le cause in Cassazione per lo stesso reato sfruttando il «fallimento di Stato», non dovremmo sorprenderci nell’aver assistito al tanto annunciato imminente cambio di rotta del Movimento sulla regola dei due mandati. I giornalisti, contrariamente a quanto detto da Di Maio nel 2018, avevano ragione e avranno ragione a dire che in fondo fanno le stesse cose degli altri partiti come, ad esempio, annunciare che non si faranno «mai» alleanze con «il nemico» per poi rimangiarsi tutto e poter governare il Paese.

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