In Evidenza ENISiriaUSA
SCIENZE E INNOVAZIONECoronavirusGiuseppe RemuzziRiapertureRicerca scientificaSanità

«Basta ansia sulla riapertura delle scuole» – Perché l’ottimismo di Remuzzi sulla Covid non è infondato

06 Settembre 2020 - 14:34 Juanne Pili
Distanziamento sociale, test diagnostici eseguiti con criterio e scuole aperte: una possibile ricetta per affrontare il virus, senza paura

Secondo quanto affermato in una recente intervista sul Corriere dal professor Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri, ci sarebbero molte ragioni per essere ottimisti riguardo i futuri sviluppi della pandemia. Tre gli argomenti chiave: il rispetto del distanziamento sociale, un uso ottimale dei test diagnostici (di cui avevamo già trattato) e l’immunità cellulare. Dati alla mano, secondo Remuzzi non ci sarebbero ragioni per essere allarmisti e preoccuparci di una seconda ondata, che il professore comunque non snobba affatto.

Uccide meno il virus o siamo noi a essere più preparati?

A dimostrazione di quanto afferma, il direttore del Mario Negri menziona diversi studi. Il primo è quello dell’Istituto nazionale di statistica e dell’Università di Milano. Su The Lancet appare così una ricerca del 3 settembre, dove emergerebbe che tra maggio e giugno non si sarebbe visto un incremento della media delle morti superiore all’anno scorso. 

Attenzione: non significa che il SARS-CoV2 è meno pericoloso di una comune influenza, cosa che il Professore non afferma affatto. Bensì, avremmo evidenze del fatto che staremmo uscendo dalla prima ondata pandemica. Nello studio, di cui Remuzzi è coautore assieme a Gianfranco Alicandro e Carlo La Vecchia, vengono presentati dei «dati preliminari», in ragione della «urgente necessità di dati sugli effetti della pandemia». 

«Il numero totale di decessi è stato ottenuto attraverso l’integrazione dei Registri della popolazione e del Registro delle imposte – spiegano i ricercatori – e questi dati sono stati rilasciati per 7.357 comuni, con dati convalidati da 7.904 comuni, che coprono il 95% della popolazione italiana residente».

A questo punto gli autori fanno notare che nel periodo febbraio-aprile (quando è esplosa la pandemia nel nostro Paese) «il numero di decessi è aumentato rapidamente, arrivando a quasi 50% di morti in eccesso per qualsiasi causa a marzo 2020. Ad aprile 2020, la mortalità in eccesso era ancora del 36%».

Tutto questo da un lato conferma che la Covid-19 non è affatto una comune influenza, dall’altro ci dice molto sull’efficacia del distanziamento sociale.

«La mortalità totale in Italia ha mostrato che la pandemia COVID-19 aveva colpito duramente il Paese nel mese di marzo 2020 – concludono i ricercatori – ma si è registrata una notevole attenuazione della mortalità in eccesso ad aprile e una mancanza di morti in eccesso a maggio […] La differenza è in gran parte dovuta alla sottocertificazione del COVID-19, principalmente a marzo, ma alcune di queste morti in eccesso sono probabilmente dovute a una gestione inadeguata di altre malattie durante la pandemia COVID-19».

Quindi Remuzzi conclude affermando che «la fase epidemica in Italia è sostanzialmente finita. Il che non vuol dire che non ce ne sarà un’altra, ma che è improprio parlare di seconda ondata». Tutto dipende ovviamente da cosa si intende per «fase epidemica» e rischio di «seconda ondata». Se da un lato siamo migliorati nelle nostre conoscenze e nella prontezza di intervento (anche se forse si potrebbe fare di più), dall’altro i dati ci parlano di un virus con cui non possiamo scendere a compromessi.

Il professor Enrico Bucci ha pubblicato di recente su Facebook i grafici del progetto CovidStat, relativi al monitoraggio della pandemia. Scopriamo così che il tempo di raddoppio dei positivi è sceso sotto i 10 giorni, mentre l’indice Rt indicherebbe che in media ogni positivo sarebbe in grado di infettare altre tre persone. Certamente l’Rt da solo non dice tanto, bisogna vedere con che criteri viene calcolato, il contesto della catena di contagi, eccetera.

L’aumento dei test potrebbe aver giocato un ruolo nel restituirci queste cifre sui positivi? Il discorso della sovranotifica che crea artefatti, poteva andare bene sulla mortalità nelle prime fasi, quando i numeri arrivavano soprattutto dalla Cina, e i morti coincidevano in buona parte col numero di positivi riscontrati. Oggi di fatto un aumento dei test non sembra rilevare un significativo calo, ed è un dato che ci sembra non trascurabile.

Quindi non dovremmo riaprire le scuole?

«Su un tema così delicato sono state fatte speculazioni inutili. Siamo tutti d’accordo che vadano aperte? Bene, le stiamo aprendo in condizione di grande sicurezza», continua Remuzzi.

Effettivamente andrebbero considerati anche i rischi sociali e sanitari del tenere le scuole chiuse, con relativi test per trovare eventuali positivi, tra studenti, famiglie e docenti. Il rischio non è nullo, ma esistono altri problemi che la scuola da sempre riesce a compensare. Citando una recente battuta del professor Andrea Crisanti, «Pur de manna’ i ragazzini a scuola… ma non si sa nulla».

Proprio The Lancet ha pubblicato il mese scorso un articolo che combina i dati degli studi epidemiologici, basati sul Regno Unito, per analizzare sei potenziali scenari conseguenti agli allentamenti.

«Per prevenire una seconda ondata di COVID-19 – spiegano i ricercatori – il rilassamento del distanziamento fisico, inclusa la riapertura delle scuole, nel Regno Unito deve essere accompagnato da test su larga scala, a livello di popolazione, di individui sintomatici e tracciamento efficace dei loro contatti, seguito dall’isolamento degli individui diagnosticati».

Se da un lato non possiamo sostenere che riaprendo le scuole potremmo rilevare nuovi focolai tempestivamente, dall’altro è difficile pensare che sia il ritorno dei ragazzi in classe il problema principale. Conta molto di più infatti, quel che succede fuori dalle mura scolastiche e dei pullman che trasportano gli alunni. Vanno considerati anche i problemi sanitari e sociali dovuti alle scuole chiuse, che si rifletterebbero sul carico del sistema sanitario e di altre figure chiave, come possiamo leggere in un report della Royal Society (il grassetto è nostro):

«Dobbiamo riconoscere che ci sono rischi derivanti dall’apertura delle scuole e rischi dalla chiusura delle scuole. Nelle scuole aperte, i rischi di Covid-19 per gli alunni stessi sono molto bassi, sebbene ci siano rischi per il personale scolastico, i genitori e la comunità in generale […] L’esperienza della maggior parte degli altri paesi che hanno già compiuto questo passo lo supporta. Al contrario, le prove sull’impatto negativo della chiusura delle scuole sono considerevoli e solide».

Non tutte le famiglie possono compensare questa perdita rivolgendosi a istituti privati, o a delle babysitter, mentre sono al lavoro. Senza contare che tra i genitori troviamo gli stessi operatori sanitari. Maggiori approfondimenti in merito ai pro e contro di una riapertura è possibile trovarli in un documento dell’Unicef del 24 agosto. Altri studi suggeriscono che l’utilità di una chiusura totale delle scuole ha senso soprattutto se istituita tempestivamente, nella fase in cui vengono individuati i primi focolai epidemici. Ovviamente occorrerà essere pronti a intervenire caso per caso. In Germania – come mesi fa anche in Francia – alcune scuole hanno dovuto chiudere per la comparsa di focolai.

«Una percentuale comunque piccola. Apriamo senza isteria, senza sovrastimare i segni, senza creare altre psicosi, che ce ne sono già abbastanza», continua Remuzzi. 

Andrebbe fatto un discorso a parte sul supporto che la scuola dà ai ragazzi, nello screening di diverse malattie fisiche e mentali e nel garantire pasti adeguati agli alunni nelle mense, e tanto altro la cui mancanza potrebbe incidere notevolmente sui bambini provenienti da famiglie povere. Così per paura della Covid-19 rischiamo di creare altri danni, sociali, economici e sanitari.

L’ipotesi dell’immunità cellulare

Molto interessante il riferimento all’immunità cellulo-mediata da parte del professore. Va precisato però che al momento non abbiamo molte certezze, ma diversi riscontri ci dicono che potrebbe giocare un ruolo importante. Potrebbe anche spiegare la presenza di asintomatici. Il tema era stato affrontato recentemente anche da Roberto Burioni. Per approfondire trovate un nostro precedente articolo sul tema.

In sostanza non solo gli anticorpi specifici ma anche altre cellule del sistema immunitario, come i Linfociti T e le Natural Killer (NK), possono giocare un ruolo importante. Le ereditiamo tutte da precedenti malanni, perché la loro risposta è aspecifica. Nella letteratura scientifica troviamo già riferimenti a gruppi significativi mai stati positivi al SARS-CoV2, che presentano traccia di cellule T nel sangue. Si tratta di studi preliminari, ma si ipotizza già di utilizzare i vaccini a virus attenuato (più adatti a suscitare questa seconda linea di difesa), per esempio contro i Coronavirus del comune raffreddore, per indurre l’immunità cellulare. 

L’idea di somministrare il vaccino antinfluenzale alla popolazione è altrettanto affascinante, ma come ci ricordava il debunker medico Salvo Di Grazia in un’intervista «ha un’efficacia, anche se non elevatissima». Potrebbe comunque rivelarsi molto utile per aiutarci a riconoscere i positivi con sintomi, discernendo da quelli che hanno invece contratto altri virus.

Qualcuno ha anche ipotizzato che prima di trovare un vaccino, il virus sparirebbe (o risulterebbe relativamente indebolito), in virtù della presenza di positivi divenuti nel mentre immuni, garantendo copertura anche al resto della popolazione. Ma oltre al fatto che non siamo certi di quanto potrebbe durare la cosiddetta «immunità naturale», dobbiamo ricordare anche uno studio apparso sulla già citata The Lancet, dove si suggerisce che tale fenomeno non basterebbe a garantire l’immunità di comunità.

Leggi anche:

Articoli di SCIENZE E INNOVAZIONE più letti