Perché non riusciamo a formare i nostri giovani medici? Continua l’emorragia di finanziamenti e medici specialisti

di Juanne Pili

L’imbuto formativo strozza le opportunità di tanti giovani neolaureati in medicina. Questi – a meno di migrare all’estero – non riescono a specializzarsi. Un punto sulla programmazione mancata e i danni al sistema sanitario

Da diverso tempo Open dà voce, assieme a poche altre testate nazionali, alla battaglia dei Giovani Medici per l’Italia, i quali denunciano l’imbuto formativo che strozza le opportunità di tanti giovani neolaureati in medicina, questi – a meno di migrare all’estero – non potranno mai specializzarsi, con una conseguente perdita, anche in termini di investimenti economici da parte dello Stato, che peggiora di anno in anno, e causa le sempre più evidenti carenze di personale medico nei nostri ospedali, nella apparente indifferenza delle istituzioni competenti.


Da decenni le politiche per la formazione dei giovani si sono concentrate sul dibattito attorno al numero chiuso e/o all’aumento degli accessi negli Atenei. Abbiamo così da sempre due fazioni, più o meno eterogenee: da una parte chi ritiene che l’accesso alla facoltà di Medicina debba essere libero, senza alcuna selezione preliminare; dall’altra chi aumenta il numero di accessi effettivi. In tutto questo dibattere resta sempre fuori la questione delle borse per le specializzazioni dei neolaureati. Così negli anni si è accumulato il numero di persone che richiedono di accedere a una specialistica, a fronte dei pochi posti disponibili.


Un imbuto formativo mai risolto

Un grande numero di studenti conseguirà nei prossimi anni – o ha già conseguito – la laurea in medicina, grazie anche agli aumenti del numero di posti nel corso di laurea in Medicina e Chirurgia approvati negli anni dai vari governi, l’ultimo dei quali disposto dal ministro dell’Università e della ricerca Gaetano Manfredi. Così i posti in Medicina e Chirurgia arrivano a oltre 13.062 per Medicina, disponibili per l’anno 2020/2021, a cui vanno aggiunte circa trentamila iscrizioni accumulatesi negli anni, a seguito dei ricorsi al Tar tra il 2013 e il 2015. Tutto questo non farà altro che aumentare la forbice tra laureati ed effettivi accessi alle borse di specializzazione.

L’obiettivo ultimo sarebbe infatti non di avere un esercito di medici senza alcuna specializzazione, ma di formarli ulteriormente, facendoli diventare i futuri cardiologi, anestesisti, oncologi, virologi, eccetera. Tuttavia le borse sono state 14.455 per il test di specializzazione del 2020, a fronte di 23.756 candidati che ne fanno richiesta. Per tutelare la qualità del servizio sanitario sembra piuttosto logico, come denunciamo i Giovani Medici per l’Italia, aumentare le borse – trattenendo le nostre eccellenze, ed evitando che fuggano all’estero – e contemporaneamente, ancorare il numero di posti nel corso di laurea a una seria programmazione, che preveda elevati standard qualitativi e i fabbisogni del test di specializzazione. La salute è qualcosa di diverso dall’assistenzialismo, necessità di capacità concrete, non di consenso politico.

Inoltre, ai duri e puri dell’economia, facciamo notare anche l’emorraggia in termini di spesa pubblica che questo imbuto formativo genera. Il Fondo di finanziamento ordinario (Ffo) dovrà sborsare per la formazione del singolo medico di base, nell’arco di almeno sei anni, 24.800 euro. Teniamo conto che solo nel 2019 si sono iscritte al test di accesso alla facoltà 68.694 persone; supponendo a titolo d’esempio che fossero riuscite ad accedere tutte assieme, la spesa totale ammonterebbe a 1.703.611.200 euro: soldi che potrebbero e dovrebbero essere usati con più lungimiranza programmatica.

Immaginiamo infatti, quanti soldi risulterebbero infruttuosi, se una parte di questi futuri neolaureati sarebbero costretti a continuare la loro formazione in altri Paesi, che al contrario si vedranno scontate queste spese e anni di preparazione. Un affare notevole, a beneficio della salute degli altri, spesso in nazioni dove il welfare e il sostegno sociale di giovani e famiglie è notoriamente più efficiente del nostro. Non abbiamo proprio scuse.

Il modello francese

Uno dei Paesi che beneficierà dei nostri giovani neolaureati in medicina, potrebbe essere anche la Francia. Noi parliamo spesso del «modello francese», come se una strategia amministrativa potesse essere esportabile, non tenendo conto delle differenze che sussistono tra i vari Stati. Riportiamo le criticità esposte dai Giovani medici in una loro recente analisi:

«Ogni anno in concomitanza col test per l’accesso al Cdl in medicina e chirurgia si discute di adottare ciò che viene comunemente definito il “modello francese”, probabilmente più per motivi elettorali e di ritorno di immagine che per una reale presa di coscienza del problema – continuano gli autori – Cosa prevede questo modello anzitutto? Prevede un primo anno accademico, il Première Année Commune des Etudes de Santé (PACES) comune a quattro differenti corsi di laurea: Medicina, Odontoiatria, Farmacia e Ostetricia».

«In questo primo anno accademico comune sono previsti corsi di scienze (biologia, chimica, fisica), di scienze mediche (anatomia, istologia, fisica, chimica), di scienze umanistiche. Al termine di questo primo anno viene svolta la selezione nazionale per l’ingresso nel Cdl specifico scelto, che rimane a numero programmato per tutti e i quattro rami di Medicina, Odontoiatria, Farmacia e Ostetricia (7.492 posti per medicina, 1.200 posti per odontoiatria, 1.017 posti per ostetricia e 3.095 posti per farmacia). Per gli studenti che non superano la selezione il sistema non prevede opzioni di recupero, di fatto possono tentare nuovamente l’anno successivo, sola una volta, oppure indirizzarsi verso altre facoltà».

«Analizzando questa tipologia di sbarramento si osservano criticità non accettabili, di fatto è una sorta di test d’ammissione al Cdl di Medicina e Chirurgia della durata di un anno estenuante a livello fisico e mentale che in Francia ha portato a un aumento fra gli studenti della prevalenza di depressione e malattie mentali quali possono essere gli attacchi di panico e alla perdita di uno o due anni di vita per chi non riesce a superare lo sbarramento».

«Al di là dello spreco di risorse umane lo Stato si troverebbe ad affrontare costi notevoli con un elevato spreco di risorse economiche, da un lato il necessario adeguamento della rete formativa per accogliere gli studenti del primo anno, dall’altro un numero di ricorsi che già si può prevedere elevatissimo, molto più di quelli già attuali. Come avverrebbe infatti il superamento dello sbarramento del primo anno? Tramite valutazione dei CFU raccolti? Tramite valutazione della media? Con quale oggettività fra i vari atenei e all’interno dello stesso ateneo? Tramite un test a numero programmato? Cosa accadrebbe agli idonei tagliati fuori per l’esaurimento dei posti? Tutte domande che potrebbero essere spunto per altrettanti ricorsi che in più di un’occasione i magistrati hanno dimostrato di accogliere».

La proposta della Regione Sicilia al Parlamento: abolizione del numero chiuso

Cosa c’è di nuovo rispetto a quanto riportato su Open da più di un anno? Niente che faccia pensare a un miglioramento. Prova ne è quanto disposto recentemente dall’Assemblea regionale siciliana (Ars), con l’approvazione di uno schema di legge da proporre al Parlamento, che vorrebbe abolire il numero chiuso alla facoltà di Medicina. Come dovrebbe essere ormai chiaro, queste misure se non toccano l’imbuto formativo appena esposto, servono a poco, dimostrandosi addirittura controproducenti.

«Ancora una volta prendiamo atto di come la pandemia non abbia insegnato che NON è la MANCANZA DI MEDICI a generare la crisi in cui versa il nostro sistema sanitario nazionale, bensì la MANCANZA DI MEDICI SPECIALISTI, frutto di politiche miopi e scellerati tagli ai fondi destinati alla sanità e alla formazione specialistica messi in atto nell’ultimo ventennio – spiegano i Giovani medici in un recente comunicato – Rimuovere il numero chiuso per la facoltà di medicina significa permettere l’ingresso al corso di laurea ad oltre SESSANTAMILA studenti ogni anno, a fronte di un numero annuo di contratti di formazione specialistica che solo quest’anno, dopo oltre dieci anni, ha superato quota 10.000. Quella che può sembrare agli occhi di un profano una iniezione salvavita in questo periodo di difficoltà, in realtà sarebbe completamente inutile, considerato che la formazione di un medico specialista richiede una media (tra corso di laurea in medicina e completamento della formazione specialistica) di UNDICI ANNI».

Anche in questo caso la questione non è solo sanitaria e formativa, ma anche economica.

«Una mossa di questo tipo, chiaramente poco pianificata e ignara dei numeri e del reale stato delle cose – continuano gli autori – non solo allargherebbe drammaticamente l’imbuto formativo, che coinvolge ogni anno sempre più camici grigi e che per il quale ad oggi non è stata trovata una soluzione efficace, ma causerebbe l’innescarsi dell’imbuto lavorativo, con un peggioramento della condizione lavorativa, già oggi non rosea».

«Se non fosse chiaro – conclude il Dottor Cucinella, presidente dell’Associazione – se non formeremo ora i medici specialisti che serviranno nel brevissimo periodo, fra 5 anni, le drammatiche scene che stiamo vedendo oggi diventeranno la normalità a causa di un SSN incapace di gestire la l’ordinario, in cui i reparti verranno chiusi per mancanza di personale, perché semplicemente non sarà possibile reperirlo».

Foto di copertina: Parentingupstream | Stetoscopio

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