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In bilico la riapertura della scuola il 7 gennaio, studenti e genitori non ci stanno: «Ci hanno ignorato, le priorità sono sempre altre»

04 Gennaio 2021 - 07:54 Felice Florio
Le voci di chi difende il diritto alla didattica in presenza. «È triste che tutto sia rimasto aperto, centri commerciali, ristoranti per l’asporto, e gli unici luoghi a restare chiusi siano quelli dove si formano i nostri ragazzi». L’Italia è il paese Ocse che ha chiuso di più

Chiusa, socchiusa, spalancata. Sul grado di apertura della scuola, in queste ore, si sta riaccendendo il dibattito politico. È una discussione intermittente: se n’è parlato ad agosto, in vista dell’inizio dell’anno scolastico di settembre. Poi c’è stata la chiusura di ottobre e il silenzio. Fino ai primi di dicembre, quando la ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina ha insistito, senza successo, per il ritorno in classe degli studenti delle superiori. All’accensione delle luminarie natalizie con il decreto Natale è corrisposto, però, lo spegnimento di ogni dibattito sulla questione: i centri commerciali sono rimasti quasi sempre aperti, le vie dello shopping zeppe di persone, le scuole, invece, vuote.

Queste contrapposizioni hanno esacerbato gli animi nella popolazione scolastica che, al 4 gennaio, non sa ancora se tra tre giorni dovrà preparare gli zaini e dirigersi verso la propria aula. Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, al vertice con i capidelegazione della maggioranza, ieri, avrebbe detto: «La didattica in presenza al 50% nelle scuole deve ripartire il 7 gennaio». Ma sono gli stessi azionisti del governo, in particolare i Dem, a tirare il freno a mano: «Non è fisica quantistica, ma buon senso. Se non siamo in grado di garantire un rientro a scuola sicuro per tutti, a fronte dei numeri del contagio e della pericolosa incognita della variante, si evita di mettere a rischio le persone, i lavoratori, i ragazzi, le famiglie», ha ammonito il deputato del Pd Filippo Sensi.

La catena di comando su cosa fare delle scuole è estremamente frammentata: esecutivo, governatori, prefetti, singole scuole con la propria autonomia stanno ancora cercando di capire come muoversi. Ma anche le modalità di un’eventuale ripresa della didattica in classe sono ancora nebulose: come avverrà il passaggio dal 50% degli studenti al 75%, come si sono organizzati i singoli territori per implementare il servizio di trasporto pubblico, come sarà distribuito l’orario dei docenti visto lo scaglionamento degli ingressi ventilato dai tecnici per risolvere gli assembramenti nel tragitto casa-scuola? E intanto, il personale scolastico non rientra nelle categorie che per prime saranno interessate dalla campagna vaccinale.

«Se ci devono essere delle restrizioni, pretendiamo che restino aperte le attività essenziali»

Chiara Ponzini, referente referente di Milano del movimento Priorità alla scuola

«La follia non è che non riaprano le scuole, ma che ci siano le scuole chiuse e tutto il resto aperto: è ormai da ottobre che i ragazzi sono rimasti fuori dalle aule». Chiara Ponzini, madre di due studenti e referente di Milano del movimento Priorità alla scuola, è sconcertata dal ritardo con il cuore ci si sta muovendo sull’ennesima eventualità che le campanelle delle superiori non squillino a gennaio. «È da aprile che chiediamo un rientro a scuola in sicurezza. Sottolineo la parola sicurezza perché non siamo dei matti, sappiamo che siamo nel bel mezzo di una pandemia. Ma la gran parte dei Paesi europei non ha chiuso le scuole: se ci devono essere delle restrizioni, pretendiamo che restino aperte le attività essenziali. La scuola, evidentemente, non è stata ritenuta essenziale quanto i grandi magazzini. Si sono tollerati gli assembramenti alla Rinascente per lo shopping natalizio».

Il movimento del quale fa parte chiede, ormai da mesi, test sierologici e tamponi a tappeto per garantire la sicurezza di studenti e docenti, il ripristino delle infermerie scolastiche «dismesse da qualche decennio e diventate sgabuzzini», rafforzamento del sistema dei trasporti. «I ragazzi, se durante una pandemia vanno a scuola, possono essere testati e mandati in quarantena se serve. Per qualche settimana c’è stato un tracciamento della popolazione scolastica e funzionava a tenere sotto controllo i giovani e le loro famiglie. Adesso, invece, i ragazzi sono a casa di mattina a seguire le lezioni a distanza ma, allo stesso tempo, sono liberi di uscire il pomeriggio per ritrovarsi nei centri commerciali. Senza controlli». La politica, dai racconti di chi vive la scuola giorno dopo giorno, ha deluso le aspettative.

«La sicurezza va creata attraverso gli investimenti»

Ludovico Ottolina, rappresentante di istituto del liceo Einstein di Milano

Ludovico Ottolina, studente del liceo Einstein di Milano, rappresentante di istituto e membro dell’Uds, si sente tradito dalla classe dirigente: «Stiamo ancora parlando di assenza di sicurezza per consentire il rientro a scuola? La sicurezza va creata attraverso gli investimenti: il rientro in sicurezza diventerebbe una conseguenza naturale». E parla di promesse disattese: «Il governo ci aveva promesso che saremmo tornati a scuola dopo l’estate, ma è durata meno di un mese. Poi ci ha fatto una seconda promessa, dopo Natale, e invece stiamo discutendo della possibilità che il 7 gennaio resteremo ancora a casa».

Gli investimenti di cui parla Ludovico sono relativi al trasporto e all’edilizia: «A breve termine, abbiamo proposto alla città metropolitana di Milano di affittare mezzi privati per implementare le corse. A medio termine, di diminuire gli accantonamenti. Sul lungo termine, di rivoluzionare il concetto di trasporto pubblico affinché la spesa non ricada più sulla bigliettistica, ma su una tassa generale a livello comunale».

«A dicembre, mentre ero collegata con la Dad la gente faceva shopping»

Lucrezia Vergani, esponente del coordinamento studentesco Azadì

Degli spazi abbandonati che potrebbero essere recuperati per attenuare il problema delle cosiddette classi pollaio parla anche Lucrezia Vergani, 19enne che frequenta il liceo Agnesi del capoluogo lombardo e fa parte del Coordinamento studentesco Azadì: «Da subito ci siamo resi conto che la Dad doveva restare uno strumento di tipo emergenziale, necessario durante i mesi di lockdown, ma non applicabile a lungo. Ci siamo resi conto che per tornare a scuola a settembre, e anche adesso, sarebbe stato necessario un piano di investimenti capillari, dai trasporti all’edilizia scolastica. Abbiamo fatto un’analisi per la requisizione degli edifici abbandonati al fine di metterli a disposizione delle attività scolastiche. Ma la politica si muove con estrema lentezza».

Lucrezia non crede che gli scaglionamenti dell’orario di ingresso possano fare la differenza senza investimenti straordinari sul sistema trasporti. «Francamente, avrei sperato di tornare a scuola il 7 gennaio – dice con rassegnazione -. Da marzo a oggi si sarebbero potute fare molte cose. Invece, la scuola è scalata in fondo all’agenda delle priorità». «Di cose che mi hanno fatto storcere il naso ce ne sono state tante – conclude -. La riapertura delle discoteche a luglio era una follia: io auspicavo che si tutelassero le attività fondamentali, e niente è più fondamentale della salute e della scuola».

«Invece, tanto l’istruzione quanto la sanità arrivano da 20 anni di tagli. Ho provato un profondo senso di delusione nei confronti delle istituzioni durante le mattine di dicembre: mentre seguivo le lezioni in Dad da casa, la gente era in giro ad affollare negozi e centri commerciali per lo shopping natalizio. Se avessimo avuto un welfare statale adeguato, ristoranti e negozi sarebbero rimasti chiusi, e la scuola sarebbe rimasta aperta. Invece, si è data priorità all’economia e la scuola è passata in secondo piano». I ragazzi hanno maldigerito la contrapposizione tra aule serrate e negozi aperti.

«Per tanti ragazzi il diritto allo studio non esiste»

Matteo Cimbal, fondatore della Piattaforma No Dad

«I decisori politici sanno benissimo che la Dad è un semplice palliativo, eppure ce l’hanno propinato per mesi», racconta Matteo Cimbal, 20enne fondatore della Piattaforma No Dad. Con i ragazzi delle Brigate volontarie per l’emergenza ed Emergency ha consegnato pacchi alimentari ad alcune famiglie meneghine in difficoltà. «È stato facile intuire che a molti ragazzi mancavano i device per seguire le lezioni, in alcuni nuclei famigliare abbiamo visto un computer diviso tra tre figli. C’era chi non aveva privacy per fare le interrogazioni in tranquillità, giovani che non potevano permettersi la connessione a internet. Tanti ragazzi hanno visto e continuano a vedere compromesso il diritto allo studio».

Matteo lamenta che ci sarebbe stato tutto il tempo per organizzarsi da marzo a settembre, «ma si è perso tempo con i banchi a rotelle e monoposto invece di concentrarsi sull’ampliamento del personale scolastico, il ripristino di spazi abbandonati e il potenziamento dei trasporti. «Il governo non si rende conto che, con la Dad, si costringono padri e madri a scegliere se andare a lavorare – e si riferisce a occupazioni precarie o in nero, poco tutelate – o restare a casa per seguire i figli nella didattica a distanza. Hanno obbligato molte famiglie alla scelta se andare a lavorare per dare da mangiare ai figli o restare a casa per seguirli nello studio. Cibo o cultura? Nessuna famiglia dovrebbe essere posta davanti a questo dilemma in un Paese civile».

Matteo fa il confronto con gli altri Stati europei che hanno chiuso le scuole per periodi decisamente più brevi. E Chiara, del movimento “Priorità alla scuola”, snocciola una statistica: «Il nostro Paese pagherà le conseguenze della chiusura prolungata delle scuole. In Italia gli istituti sono stati chiusi almeno 18 settimane, a fronte di una media dei Paesi Ocse di 14. Inoltre, più di 2 milioni di giovani tra i 15 e i 29 anni non studiano e non lavorano. È un record europeo».

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