Parità di genere, Draghi vuole superare le quote rosa: «Sistema imperfetto, ma necessario» – Le interviste

La ricetta del premier incaricato per contrastare la disuguaglianza di genere e colmare il gender pay gap convince soltanto in parte chi si occupa da anni di politiche di genere. Ecco perché

Nel suo discorso al Senato, Mario Draghi – il cui governo è nato anche tra le polemiche per la scarsa rappresentanza delle donne in posizioni apicali (sono otto le ministre, pari a circa un terzo del totale) – ha preso posizione contro le cosiddette «quote rosa», che garantiscono alle donne un numero minimo di posti (dagli incarichi politici a quelli dirigenziali) per compensare le discriminazioni e gli svantaggi a cui spesso sono andate incontro – un sistema che all’estero non si limita alla sola lotta alle discriminazioni di genere, ma anche a quelle etniche e sociali. 


Per capire qual è la situazione in Italia, è sufficiente dare un’occhiata ai dati economici sulle ricadute delle pandemia, che mostrano quanto le donne siano ancora una delle categorie più vulnerabili in caso di crisi. Una situazione confermata a monte dalla disparità salariale – il gender pay gap citato da Draghi -, su cui l’Italia detiene un triste record, posizionandosi agli ultimi posti in Europa.


Le ragioni di Draghi e quello che non torna

Ma le quote rosa sono il modo migliore per risolvere il problema delle disuguaglianze di genere? Per Draghi la risposta è chiaramente «no». «Una vera parità di genere non significa un farisaico rispetto di quote rosa richieste dalla legge: richiede che siano garantite parità di condizioni competitive tra generi», ha dichiarato il premier incaricato tra gli applausi di una parte dell’Aula del Senato. La tesi sposata da Draghi è nota: cercare di correggere le discriminazioni introducendone di nuove, con forzature come il sistema delle quote, non serve a nulla e finisce per premiare individui meno qualificati pur di garantire una parità “di facciata”.

A pensarla così sono anche molte donne, che si oppongono alle quote rosa in quanto strumento “paternalista” di cooptazione dall’alto che rischia di omologare anziché emancipare. Eppure in Italia il sistema è stato regolato di recente sia in politica sia nel privato, portando a risultati significativi in termini di rappresentatività. Il parlamento del 2018 è stato il più «rosa» della storia, grazia anche alla legge elettorale attuale, che prevede l’alternanza uomo-donna nelle liste elettorali e il limite massimo di 60% per genere.

In ambito economico invece, la legge Golfo-Mosca in vigore dal 2012, che obbliga le società quotate in borsa a riservare il 30% dei posti nei consigli di amministrazione a donne, ha «prodotto i risultati prestabiliti», per citare Openpolis, senza però «portare alla diffusione di pratiche e situazioni che andassero oltre gli obblighi previsti legalmente».

Lo stesso discorso si potrebbe fare anche per la politica, come dimostrano le polemiche nate con l’insediamento del Governo Draghi, a cui però non vanno certo tutte le colpe. Se nel parlamento italiano il numero complessivo di donne è in effetti aumentato grazie alle quote, rimane lontano dalla soglia auspicata del 40% (attualmente è pari a circa il 34%). Ma chi insiste sull’importanza dell’applicazione di un sistema simile, spesso rivendica la necessità di intervenire nell’immediato per dare una scossa al sistema, per sua natura portato ad assimilare i cambiamenti con processi lenti.

Fonte: Openpolis

«Mi dispiace che non si capisca che le quote rosa sono uno strumento politico molto importante – dichiara a Open Giulia Cuter, Creatrice di Senza rossetto e coautrice di Le ragazze stanno bene (HarperCollins 2020) -. Usare la meritocrazia come alibi vuol dire non voler vedere che la parità di genere è un problema sistemico, che non si risolve senza forzature – come appunto le quote rosa. È un sistema imperfetto, ma è la soluzione migliore e più immediata».

La questione si pone con urgenza in questo momento anche perché Draghi è chiamato a gestire il Recovery Fund con tutto ciò che questo comporta anche nel lungo termine, come fa notare Cuter. «Le quote fanno sì che le donne entrino in un sistema decisionale in cui, se manca la rappresentanza femminile, i problemi delle donne vengono ignorati. Non è una questione di malafede: se non ci sono le donne che decidono come spendere i soldi, è ovvio che le questioni che riguardano loro probabilmente verranno escluse. È naturale che i politici non si pongano problemi che non li riguardano».

Istruzione o ingresso nel mondo del lavoro? Su cosa conviene puntare

Tra questi ci sono anche i problemi a cui vanno incontro le donne che si affacciano per la prima volta sul mondo del lavoro. «Ci siamo rese conto che esistevano problemi simili il giorno stesso in cui abbiamo cominciato a cercare lavoro – continua Cuter, che da tempo raccoglie le testimonianze di giovani donne sul tema -. Queste discriminazioni sono molto più lampanti nel mondo del lavoro, ma è sbagliato credere che non esistano a monte». È lì che, stando a quanto dichiarato in Senato, Draghi vorrebbe intervenire per garantire «eguale accesso alla formazione di quelle competenza chiave che sempre più permetteranno di fare carriera – digitali, tecnologiche e ambientali». 

È chiaro che i due problemi siano in rapporto tra loro. Per esempio, la percentuale di donne che ha una laurea nel cosiddetto mondo Stem (Science, Technology, Engineering and Mathematics) è circa la metà rispetto agli uomini. Inoltre, come fa notare Isabella Falautano, executive in Illimity Bank e fondatrice di Angels4Women, pur laureandosi meglio rispetto agli uomini, già dopo un anno nell’ingresso nel mondo lavorativo le donne subiscono un pay-gap di circa il 10%. «Se pensiamo che da qui ai prossimi anni – dichiara a Open –, serviranno soltanto in Italia 1 milione e 500 mila professionalità nel mondo digitale e tecnologico è assolutamente essenziale attrezzarci e accedere a questi posti di lavoro».

Falautano dice di non essere favorevole alle quote se non «dove è necessario interrompere dei circuiti non virtuosi» per inserire delle «distorsioni temporanee» che devono rimanere tali. Devono essere un mezzo, non un fine delle politiche di genere», aggiunge. Ma, come fa notare, la rappresentanza delle donne ai vertici delle aziende, così come in politica, è ancora molto limitata. «Il vero tema dell’Italia è la diversità nei vertici aziendali, nella cosiddetta c-suite. Le quote – continua – sono servite per rompere degli schemi precostituiti a livello di governance. Restano aperti due temi di fondo nelle imprese: il cosiddetto glass ceiling, cioè il fatto di poter accedere anche alle stanze dei bottoni, e la disparità salariale. Bisogna partire dalle nuove generazioni ma guardare anche più in alto».

Come fare se non con le quote?

«Premesso che dipende anche da come viene misurata la competenza, per cui servirebbero delle metriche condivise, probabilmente può funzionare portare esempi di imprese che hanno ottime performance avendo una maggiore diversità. Esiste una correlazione diretta tra l’andamento di un’azienda, in particolare la sua tenuta in un momento di crisi, e la diversità al suo interno. Va fatto capire alle aziende, soprattutto quelle meno attrezzate, che non sono temi in contrasto tra loro. Più che introdurre sanzioni, cercherei di valorizzare i modelli che funzionano bene con delle forme di incentivo in positivo». Magari scegliendo aziende che hanno come ceo una donna, verrebbe da aggiungere.

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