Guido Bertolaso annunciava il 17 febbraio l’arrivo in Lombardia della cosiddetta variante «scozzese», emersa di recente nel Regno Unito. I genetisti l’hanno classificata B.1.525, per la sua collocazione nell’albero genealogico varianti del nuovo Coronavirus. Parliamo di un paio di casi nella provincia di Varese. In Italia la individuano per la prima volta il 16 febbraio l’Istituto Pascale e l’Università Federico II di Napoli. Lo stesso giorno la BBC riportava che in Scozia l’Università di Edimburgo segnalava 38 casi.
Dove eravamo rimasti:
Le varianti Covid studiate presentano un set di mutazioni genetiche relative al RBD (Receptor Binding Domain), una porzione dell’antigente (proteina Spike (S) che il virus usa per infettare le cellule polmonari. La mutazione che preoccupa maggiormente, perché associata in alcuni studi preliminari a una potenziale maggior virulenza e/o capacità di eludere le difese immunitarie, è la E484K, presente nella variante scozzese. Mancano invece altre sotto osservazione, come N501Y.
Più africana che scozzese
Al momento B.1.525 non risulta tra le varianti di maggiore preoccupazione (VOC), che al momento sono la inglese, la sudafricana e la brasiliana. Altri casi sono stati registrati in Nigeria, Danimarca, Australia e Stati Uniti. Secondo quanto riporta il portale Virological, B.1.351 emerge attraverso una linea evolutiva strettamente imparentata con la variante sudafricana (501Y.V2), ed è proprio in Sud Africa che la rilevano per la prima volta, nell’ottobre 2020, i ricercatori del Network for Genomic Surveillance.
A preoccupare maggiormente è la presenza nel suo corredo di mutazioni la E484K, trovata nelle varianti di maggiore preoccupazione. Secondo studi preliminari infatti, tale mutazione potrebbe incrementare la capacità del virus di legarsi ai recettori delle cellule, altri suggeriscono che potrebbe invece aiutare SARS-CoV-2 a evadere le nostre difese immunitarie. Il 7 gennaio venivano già segnalati casi collegati alla variante B.1.351 in 13 paesi, non di meno, solo otto di questi avevano depositato i relativi sequenziamenti genomici.
La presenza di B.1.351 non sembra incidere sulla pandemia in Scozia
Abbiamo evidenze che B.1.351/501Y.V2 possa risultare più pericolosa in Scozia? Un recente studio ancora in attesa di revisione sembra suggerire – che almeno per quanto riguarda i piani vaccinali contro la Covid-19 – che non dovrebbero esserci problemi. Parliamo dei risultati provenienti dal progetto Early Assessment of Vaccine and anti-viral Effectiveness (EAVE II project). Si basano su un campione di 1,14 milioni di somministrazioni tra dicembre 2020 e febbraio 2021.
«Lo studio ha esaminato il numero di ricoveri in ospedale con Covid tra questa popolazione e lo ha confrontato con quelli ammessi che non erano stati vaccinati – riporta la BBC – In totale, poco più di 8.000 persone sono finite in ospedale. Ma solo 58 di loro erano state vaccinate quattro settimane prima».
Il progetto EAVE II monitora in tempo reale i dati dei pazienti in parallelo con l’andamento del piano vaccinale. Coinvolge anche le Università di Edimburgo, Strathclyde, Aberdeen, Glasgow e St Andrew. Copre l’intera popolazione scozzese: 5,4 milioni di abitanti. Per avere informazioni analoghe su tutto il Regno Unito dovremo ancora attendere. I risultati raccolti finora dai ricercatori britannici, sono una buona notizia anche nello specifico dell’efficacia dei vaccini di Pfizer-BioNTech e Oxford-AstraZeneca, in distribuzione nel Regno Unito. Rispettivamente i due vaccini appaiono efficaci all’85% e al 94%.
Foto di copertina: 192635 | Scozzesi.
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