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Annalisa Corrado (Pd) a Open: «Bendati, derisi, privati del sonno, così Israele si è vendicata sugli attivisti della Flotilla» – L’intervista

08 Ottobre 2025 - 21:01 Alessandra Mancini
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L'eurodeputata vicina a Elly Schlein: «Non sappiamo dove sono finiti gli aiuti umanitari. Francesca Albanese? Una donna coraggiosissima»

Da Strasburgo – Le imbarcazioni della nuova Flotilla sono state intercettate dall’Idf all’alba di oggi a circa 120 miglia nautiche da Gaza. Attivisti, medici e giornalisti a bordo – tra cui nove italiani e un’eurodeputata dei Verdi – sono stati trasferiti in un porto israeliano e saranno «presto espulsi», fa sapere Israele. Un copione che si ripete. Con meno copertura mediatica, e un approccio diverso da parte del governo Meloni rispetto alla missione precedente. Nessun «irresponsabile» questa volta, ma tutta «l’assistenza necessaria», dichiara Antonio Tajani. Un profilo basso, dunque, probabilmente dovuto «all’assenza di parlamentari italiani coinvolti», ma anche «alla consapevolezza che la prima missione aveva suscitato un’ondata di mobilitazione nelle piazze», dice a Open l’eurodeputata del partito democratico Annalisa Corrado, secondo cui il nuovo attacco e il conseguente fermo da parte dell’esercito israeliano rappresentano «l’ennesima violazione del diritto internazionale». Cinque giorni fa, Corrado è tornata in Italia dopo esser stata fermata e successivamente rilasciata da Israele per aver preso parte alla missione diretta sulla Striscia di Gaza. Ora si trova a Strasburgo perché – spiega – «la battaglia non si ferma». Ma anche per portare la sua testimonianza e denunciare gli abusi subiti da Israele nell’aula del Parlamento europeo, che ha però negato lunedì la richiesta di inserire all’ordine del giorno un confronto e una presa di posizione ufficiale da parte dell’Ue. «Me lo aspettavo – commenta la deputata dem – perché è diventata una vicenda fortemente politicizzata e strumentalizzata, nonostante fosse e resti una missione umanitaria».

On. Corrado, il Pd ha promosso un’interrogazione parlamentare al ministro Tajani sulle violenze e i sequestri illegali, ma anche sulle comunicazioni dello stesso ministro secondo cui che la vostra imbarcazione si era staccata anticipatamente dalla Flotilla.

«L’interrogazione è, a mio avviso, assolutamente dovuta. La flottiglia si è mossa con una missione umanitaria, completamente disarmata, pacifica, pacifista, e in acque internazionali. Il sequestro delle barche e degli equipaggi è totalmente illegittimo e criminale, come anche il blocco navale. Siamo stati deportati contro la nostra volontà al porto di Ashdod. E lì è andata in scena una situazione, come ha definito Arturo Scotto (deputato Pd, ndr), da “deriva cilena” del governo Netanyahu. Siamo stati privati di diritti fondamentali: la possibilità di parlare con l’ambasciatore, la presenza del console, la possibilità di chiamare il nostro avvocato. Sulle imbarcazioni ci hanno sequestrato i telefoni, abbiamo subito intimidazioni, atti di bullismo; intorno a noi c’erano tantissime persone armate e molti dei nostri compagni hanno subito violenze fisiche». 

Cos’avete visto esattamente?

«Abbiamo visto persone inginocchiate con la testa china, attivisti bendati, spintonati e trascinati via, tra urla e insulti da parte dei soldati. Una volta fermati e deportati in quello che chiamavano un hub, ci hanno obbligati a togliere scarpe e calze e a camminare in mezzo allo sporco. Hanno svuotato e rovistato nei nostri zaini, buttando via cibo e medicine. Poi siamo stati portati agli interrogatori, senza la possibilità di avere un avvocato. Ci hanno fatto firmare diversi moduli, tra cui uno per il rimpatrio rapido, che non implicava un’ammissione di colpa, ma ce n’erano altri in cui ci si chiedeva di dichiarare di essere entrati illegalmente in acque israeliane. Abbiamo scritto sotto la firma che la sottoscrizione non equivaleva ad alcuna ammissione. Molte cose erano scritte solo in ebraico, e abbiamo dovuto firmare comunque. Ci hanno anche confiscato passaporti e carte di credito, poi ci hanno preso le impronte digitali, scattato le foto, e insultato durante tutto il processo». 

Dopo l’interrogatorio cos’è successo?

«Ci hanno caricati su furgoni blindati divisi in celle: una più grande con circa 15 posti e due più piccole davanti. Le condizioni erano claustrofobiche e disumane: niente aria condizionata, nessuna luce, e un caldo soffocante. Eravamo molte donne, e tra noi è scattata subito una solidarietà spontanea: c’era chi piangeva, chi cercava di sdrammatizzare, chi semplicemente si stringeva alle altre per farsi forza. A un certo punto io e Benedetta Scuderi (europarlamentare dei Verdi, ndr), siamo state fatte scendere: i funzionari israeliani volevano scattare una foto da inviare all’ambasciatore con tutti e quattro i parlamentari italiani. Ci hanno sbattuti contro un muro, circondate da una quarantina di militari. Intorno a noi passavano persone strattonate, malmenate, bendate. Dopo la foto, ci hanno riportate nelle celle. Ma non bastava: ci hanno richiamate di nuovo perché serviva anche un video in cui dovevamo dichiarare di stare bene. A quel punto ho detto chiaramente che non era vero: non ci avevano dato né acqua né cibo, non ci avevano permesso di andare in bagno né di contattare l’ambasciatore. Solo allora ci hanno concesso una telefonata, durante la quale ci è stato detto che saremmo stati trasferiti in un carcere. Da lì ci hanno spostati in un altro furgone, senza sapere dove ci stavano portando. Un’esperienza psicologicamente insostenibile: ci sentivamo intrappolati, disorientati, completamente privati di controllo sulla nostra vita. In uno dei furgoni siamo stati lasciati per ore, in silenzio o tra urla improvvise, in una condizione di confusione e angoscia che sembrava deliberatamente creata per disorientarci».

E poi?

«A un certo punto, la porta del furgone si è aperta e una donna in uniforme ci ha annunciato che saremmo stati trasferiti all’aeroporto. Ma, invece, ci hanno portati in una caserma. Lì ci hanno fatto sedere sotto un grande manifesto con le immagini delle vittime del 7 ottobre, chiaramente nel tentativo di farci sentire colpevoli. Hanno iniziato a mostrarci foto delle vittime, accusandoci di ignorare quanto accaduto due anni fa. Solo dopo ci hanno effettivamente condotti all’aeroporto e riconsegnato i bagagli. Ma, inspiegabilmente, ci hanno riportati di nuovo in caserma, senza darci informazioni sui nostri compagni o su cosa stesse succedendo. Più tardi, verso le 4 o 5 del mattino, siamo stati riaccompagnati allo scalo, dove ci hanno fatti sedere in un lungo corridoio, vietandoci però di alzarci. Ogni volta che chiedevamo di andare in bagno, eravamo costretti ad andarci accompagnati da una guardia, lasciando persino la porta aperta. È iniziata così anche una vera e propria privazione del sonno: appena qualcuno chiudeva gli occhi, le guardie cominciavano a urlare, ridere o deridere le persone, impedendo ogni minimo riposo. In aeroporto ci ha raggiunti il vice-ambasciatore italiano, informandoci che il resto dell’equipaggio era stato portato in prigione. Ma non ci veniva permesso di avere contatti né con loro, né di capire cosa stesse succedendo davvero: ci hanno privati del diritto fondamentale di comunicare, di essere informati, di comprendere cosa stava accadendo a noi e agli altri».

Infine, siete partiti…

«Sì. Quando siamo saliti in aereo, una hostess ha preso il microfono e in ebraico ha annunciato agli altri passeggeri che c’erano “quattro nemici di Israele” a bordo. Subito è iniziata una processione di gente che veniva a farci le foto e ci insultava. Per fortuna, alcuni passeggeri ci hanno difeso e ci hanno sussurrato parole di sostegno».

Cosa si prova in circostanze del genere?

«La sensazione che mi porto dentro, ed è quella con cui combatto e non so per quanto tempo lo farò, è quella di aver bussato volontariamente alle porte dell’inferno e di essere entrata. Io non ho subito violenza fisica, altri sono stati picchiati ma io, nel profondo, quella notte ho pensato che avrebbero potuto uccidermi in qualsiasi momento. Abbiamo visto il lato più oscuro di un sistema che non esita a fare ciò che vuole, a distruggere vite, a praticare un sadismo sistematico. E se questo è quello che accade a noi, che eravamo in missione umanitaria, posso solo immaginare che cosa subiscano le persone che sono considerate per Israele sacrificabili, a partire dai palestinesi. Una delle cose che mi colpisce di più è la profondità dell’odio che abbiamo visto, il desiderio di vendetta che ha nutrito molte di queste generazioni, alcune delle quali sono giovanissime. Alcuni poliziotti sono stati un po’ più gentili, ma la maggior parte di loro ha mostrato una cattiveria che è difficile da spiegare».

Lunedì il Parlamento Ue ha bocciato l’inserimento nell’ordine del giorno di un confronto e una presa di posizione ufficiale da parte dell’Unione europea. Perché? 

«Mi aspettavo che l’inserimento nell’ordine del giorno fosse bocciato, perché la questione è diventata estremamente politicizzata e strumentalizzata. Anche se la nostra missione era umanitaria, il Parlamento, in gran parte vicino al governo israeliano, non ha voluto fare passi concreti. Non siamo riusciti nemmeno a far approvare una risoluzione sulla Palestina, cosa invece che accade per l’Ucraina, a dimostrazione che evidentemente non tutti i morti sono considerati allo stesso modo o che alcuni “leader” sono intoccabili. Solo grazie alle manifestazioni di milioni di cittadini si è riusciti a ottenere qualche risultato. In realtà, chi si oppone davvero a Benjamin Netanyahu rappresenta una minoranza, anche quando lo stesso primo ministro israeliano calpesta il diritto internazionale. Le alleanze con regimi autocratici sono sempre pericolose, instabili e fragili. Ciò che invece resta e che deve essere difeso da tutti è la democrazia. E proprio per questo, anche chi si riconosce a destra o chi non ama la Flotilla dovrebbe sentire la democrazia come un valore fondamentale da tutelare».

Che effetto le ha fatto l’enorme mobilitazione in Italia per la Flotilla e per Gaza? 

«Quando, prima che ci staccassero la rete, abbiamo visto l’Italia sollevarsi – con decine di migliaia di persone scese in piazza spontaneamente, di notte, per sostenerci – è stato profondamente commovente. In quel momento ci siamo sentiti parte di qualcosa di molto più grande: non solo protagonisti di un’azione simbolica, ma rappresentanti di un movimento collettivo. Ed è qui che sta la vera differenza. C’è un prima e un dopo la Flotilla, nella consapevolezza pubblica su ciò che sta accadendo a Gaza. È vero che mediaticamente si è parlato tanto della missione e forse troppo poco della tragedia in corso, ma credo che la Flotilla abbia avuto un ruolo importante: ha acceso una luce, ha rotto l’indifferenza, ha costretto molti a guardare davvero la realtà. Qualcosa si è mosso nell’opinione pubblica, e questo ha un valore. Per questo, nonostante non siamo riusciti a portare gli aiuti, nonostante le strumentalizzazioni, le derisioni e la violenza che abbiamo subito, penso che ciò che è successo rappresenti comunque un momento storico».

A proposito di aiuti umanitari, che fine hanno fatto? 

«Gli aiuti umanitari sono stati sequestrati insieme alle nostre barche. Purtroppo, quando ci hanno fermati, hanno preso anche gli aiuti, e non sappiamo cosa ne sia stato. C’era molta propaganda che diceva che tra gli aiuti c’erano solo droga e alcol, ma questo è completamente falso. La flottiglia aveva regole severe, nessun alcol era ammesso, e gli aiuti erano destinati solo alla popolazione di Gaza. Non sappiamo cosa sia successo ai materiali che stavamo portando, ma le autorità israeliane hanno impedito in ogni modo che arrivassero a destinazione». 

Cosa vi aspettate o aspettavate dal governo? 

«Noi continuiamo a chiedere, oggi come prima e durante la Flotilla, ciò che chiedevamo fin dall’inizio. Una delle responsabilità più gravi del governo in questa vicenda non è solo l’averci derisi, ma anche l’aver cercato di richiamare all’ordine i parlamentari coinvolti, come se la presidente del Consiglio potesse farlo. Forse nella Costituzione che immaginano loro sì, ma in quella reale e vigente, noi parlamentari non rispondiamo a Giorgia Meloni. Io non mi sono mai sentita così fiera di rappresentare le istituzioni come su quella barca. Perché il governo, che avrebbe potuto fare molto per fermare il genocidio in corso, non ha fatto nulla. E allora, continuiamo a chiedere: il riconoscimento dello Stato di Palestina, la sospensione degli accordi di associazione con Israele in sede europea, un embargo totale sulle armi – che includa sia la vendita sia l’acquisto di tecnologia e servizi militari – e la sospensione degli accordi commerciali, come è stato fatto con la Russia. Pretendiamo anche un embargo economico e, soprattutto, la riapertura dei corridoi umanitari, che oggi sono stati praticamente azzerati. Da quando le Nazioni Unite sono state escluse dalla distribuzione degli aiuti, l’assedio si è aggravato: il valico di Rafah è chiuso, il mare è bloccato, non entra più nulla, se non attraverso la Gaza Foundation. E quando Meloni afferma che avrebbe potuto portare gli aiuti “lei stessa in poche ore”, mente sapendo di mentire. Perché se avesse davvero voluto farlo, l’avrebbe già fatto. La domanda, allora, è: perché non lo fa?».

C’è polemica su frasi e azioni pubbliche di Francesca Albanese, in particolare su Liliana Segre e sugli ostaggi israeliani a Gaza. Anche dentro il Pd ci sono divisioni. Lei cosa ne pensa?

«È senza dubbio una donna molto coraggiosa, che ha sempre lottato con determinazione al fianco del popolo palestinese. Purtroppo, chi diventa simbolo di una causa è spesso esposto a critiche e attacchi più frequenti. Ma chiunque si impegni concretamente per la causa palestinese merita rispetto».

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