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Sanremo 2026, Carlo Conti risponde alle critiche sugli ospiti. Ma non chiarisce: vi spiego perché

02 Dicembre 2025 - 14:51 Gabriele Fazio
festival sanremo 2025 conferenza stampa carlo conti
festival sanremo 2025 conferenza stampa carlo conti
Il direttore artistico ha detto la sua su RTL 102,5, ed ha anche fatto qualche ammissione. Ecco cosa non convince

Carlo Conti ha deciso di rispondere alle critiche ricevute all’indomani dell’annuncio del cast del suo Sanremo 2026. Lo fa ai microfoni di RTL 102.5, a Non Stop News con Enrico Galletti, Giusi Legrenzi, Massimo Lo Nigro e Lucrezia Bernardo. Un atto di coraggio o forse un intervento inevitabile dopo che pubblico e critica si sono ritrovati straordinariamente unanimi nella valutazione dei big scelti dal conduttore toscano. Peccato che, per la serie “Quando la toppa è peggio del buco”, Conti non ne azzecca una, svelando, abbastanza clamorosamente, anche se nessuno manifesterà chissà quale indignazione, la natura profondamente commerciale dell’idea che lui, ma sospettiamo in generale la Rai, hanno del Festival di Sanremo.

A Conti piace mischiare

«La forza di questi ultimi anni di Sanremo – dice Conti a RTL 102.5 – è stata mischiare e allargare il più possibile alle varie generazioni, mischiando quello più conosciuto da una generazione a quello meno conosciuto da un’altra e viceversa», falso. La forza di questi ultimi anni di Sanremo è dovuta ad una vertiginosa sterzata verso i nuovi e più autentici trend discografici, messi da Amadeus al centro dell’offerta.

Si può discutere l’idea di far virare Sanremo verso il Festivalbar o il MiAmi, così come è stato accusato in diverse annate, ma effettivamente quella, bene o male, era la musica italiana in quelle determinate stagioni e, concedendo ai nonni e agli appassionati di gossip qualche contentino (qualche! ndr), alla fine l’attenzione ruotava attorno ad un nucleo di artisti, se non sempre eccellenti, sempre estremamente presenti al pubblico.

Quello che Conti non coglie, evidentemente, dalle critiche di queste ore, è che, appunto, il pubblico sa o su larga scala percepisce, che questo cast, per molti aspetti, segna un passo indietro nel rapporto del Festival con la più autentica discografia. Sarebbe banale ridurlo alla questione “big che non sono poi così tanto big”, perché poi lui, giustamente, come ha fatto, si gioca la carta Lucio Corsi, «Che era praticamente sconosciuto ai più e guardate che cosa è riuscito a fare». Il problema è che, salvo rare eccezioni, e considerata la quantità di artisti coinvolti, potremmo anche parlare di legge dei grandi numeri, molti dei nomi scelti sono lontani dal vero mercato discografico. L’epoca della musica che deve necessariamente passare dalla tv, è ormai ampiamente tramontata.

Chi ha successo, davvero

Mettendo da parte casi come Elettra Lamborghini, che consideriamo più una sorta di diversivo nel cast, un divertissment, uno sketch musicale, molti artisti del cast sono volti rassicuranti per chi guarda la tv, ok, ma totalmente prescindibili per chi abita le terre del businness musicale, che sono due e due soltanto: le venue dei live e internet. L’anno scorso infatti, non è un caso, quasi la totalità degli artisti in gara a Sanremo aveva un grosso seguito in termini di sbigliettamento, addirittura c’era chi, al netto della gara, era andato in riviera fondamentalmente per spingere la vendita per grossi eventi futuri negli stadi o in altre grosse venue (Elodie, Tony Effe, Irama…).

Abbiamo calcolato, su per giù, che non arrivano a dieci gli artisti del cast di Sanremo 2026 in grado di fare numeri degni di un palazzetto. Un palazzetto, non uno stadio. Concerti, un contatto autentico con il pubblico, che paga un biglietto e affronta il traffico della città per assistere ad un evento live e che si accende, naturalmente, quando quell’artista va in gara a Sanremo.

«Uno spaccato del paese»

Prosegue Conti: «Sanremo è il festival della canzone italiana e quindi deve essere uno spaccato di quella che è, in quel momento, la proposta musicale del nostro paese». Certo, giusto, dovrebbe. Peccato che, salvo rari casi, ma torniamo alla legge dei grandi numeri di cui sopra, la maggior parte di questo cast non rappresenta affatto la proposta musicale del nostro paese. Se prendiamo in considerazione Spotify come più autentico termometro del nuovo mercato discografico (non televisivo), nella top50, ma ampiamente fuori dalla top ten, troviamo solo Luché e, casualmente, diremmo quasi di passaggio, forte del successo virale su TikTok della sua Non è mica te, Eddie Brock. Punto.

Esattamente, per valutare quale sia «La proposta musicale del nostro paese», a quali dati si riferisce il direttore artistico? Perché alcuni nomi che leggiamo (Leo Gassmann, Michele Bravi, Enrico Nigiotti, Francesco Renga, LDA e Aka7even, tenendo da parte, è chiaro, chi anagraficamente è ormai quasi in pensione) sono lontani anni luce dalla trincea del mercato discografico. Altro che proposta, non rappresentano nemmeno un sussurro, anche rispetto personaggi meno conosciuti al largo pubblico televisivo come Chiello, Sayf, Nayt, Maria Antonietta/Colombre, ma che, questi sì, rappresentano in modalità diverse, la musica italiana attuale. Il futuro della nostra tradizione cantautorale o del rap, che è un genere, sarebbe ora che lo capissero un po’ tutti, intellettualmente dignitoso e meritevole di quei riflettori.

L’illusione delle hit radiofoniche

E ancora: «Io da buon vecchio dj vado anche molto a pensare, del resto come ha fatto magistralmente Amadeus, abbiamo l’orecchio radiofonico e quindi andiamo a cercare soprattutto delle canzoni che possono girare in radio, restare un po’ nel tempo». Quello dei passaggi in radio è un pericoloso tranello però. Basterebbe partire da un assunto inattaccabile: le radio hanno una programmazione giornaliera, h24, sette giorni su sette, e per definizione catturano e rilanciano i trend, le mode. Per questo ci si scazzotta per entrare nella “Heavy rotation”, ovvero una selezione di brani che vengono passati dalle 4 alle 8 volte al giorno.

Manco a dirlo, Sanremo per le radio è una manna dal cielo, per almeno un mesetto sono esenti da qualsiasi selezione, perché il Festival impone quali sono i trend e nell’ambiente musicale, non si parla d’altro che dei brani in gara. Non c’è una reale scelta delle radio riguardo i brani di Sanremo, perché i brani di Sanremo, quale più e quale meno, è chiaro, vanno bene a prescindere, rappresentano un’attualità troppo scottante per essere ignorata.

Chiaro è che se riempi la playlist sanremese di tentativi di hit, come Conti ha fatto l’anno scorso con Elodie, The Kolors, Gaia, Sarah Toscano, Rose Villain e Clara, poi alla fine ti porti a casa il risultato radiofonico. Ma il successo in radio di pezzi che in radio ci sarebbero finiti ugualmente, non è un argomento: basta selezionare brani radiofonicamente efficaci. Incarico che potrebbe serenamente essere affidato ad una commissione di liceali.

Accontentare tutti

È verso la fine che Carlo Conti rivela il suo reale intento: «Accontentare tanti gusti, seguendo le tendenze del momento, i colori che funzionano nel momento». In questo punto preciso, inevitabilmente, il Festival di Sanremo allora non si cura dell’aspetto musicale. Accontentare il gusto del pubblico è una scelta del Festival, che è un evento nazionalpopolare, e con questo però rinuncia a qualsiasi modello di proposta culturale.

Sanremo blocca un intero paese, stiamo tutti concentrati lì e, per l’unica volta nell’intera stagione musicale, la gente sta davvero attenta ad ascoltare le canzoni, (le commenta, le discute, legge i testi) canzoni che poi nei mesi successivi devieranno profondamente non solo i nostri ascolti ma anche le scelte della discografia mainstream. Esempio: nell’ultimo anno nell’ambiente discografico tutti (artisti, manager, uffici stampa, critici…) hanno notato un vaghissimo calo nell’hype relativa alle sonorità urban. Stiamo dicendo che il rap è morto? Neanche per sogno. Ma c’è un’attenzione decisamente maggiore, in termini di stream e di vendita di biglietti, verso il puro cantautorato.

Potrebbe anche essere che la ruota, semplicemente, stia girando, e che quello che va oggi domani non andrà. Oppure potremmo pensare che lo strabiliante successo di chi ha vinto lo scorso anno il Festival di Sanremo, ovvero Olly e, non in maniera minore, Lucio Corsi, abbia dimostrato alle major che tutto sommato anche il cantautorato può essere economicamente performante.

Il ruolo di Sanremo

Carlo Conti, così come Amadeus, si vanta dei successi radiofonici, sta lì a contarsi i passaggi di Cuoricini, Tu con chi fai l’amore e Chiamo io chiami tu, brani dei quali dopo un po’ nessuno si ricorda più, ma il vero problema del Festival è rappresentato dagli schiaffoni ricevuti da molti hitmaker in termini di classifica nel 2025, un ridimensionamento che probabilmente ha spinto tanti a dire di no quest’anno. Forse tenere in conto anche la proposta di musica di qualità può servire anche economicamente al Festival.

Il che non vuol dire affatto negarsi slot dedicati a pezzi meno impegnati, più televisivamente performanti e che poi, si, perché no?, possano anche risultare ottimo mangime per il becco delle radio, ma su quel palco, quella potente accelerata in termini di riconoscimento pubblico, deve andare a chi esiste davvero sul mercato e quella spinta la merita. Essendosi poi allargata a 30 artisti la lista dei partecipanti è ovviamente più facile metterci dentro tante cose, indipendentemente dal loro valore.

La musica è al centro?

Se gli ascolti comandano e le scelte sono relative solo ai numeri televisivi allora almeno ci vengano risparmiati i discorsi sulla «musica al centro», un mantra che torna regolarmente ogni anno. La musica non è affatto il centro del Festival di Sanremo e rappresenta solo il linguaggio utilizzato nella drammaturgia televisiva dell’evento. Ma se è vero che Sanremo è un programma televisivo, è vero pure che non è solo un programma tv, e potrebbe prendersi maggiori responsabilità anche sulla qualità musicale.

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