Di Maio comunque ministro? L’ipotesi del doppio passo indietro: perché potrebbe anche stare fuori dal governo

Che ruolo ricoprirà il capo politico dopo la rinuncia al ruolo di vicepremier del (Rousseau permettendo) nascente esecutivo giallorosso?

La giornata di ieri ha segnato la svolta nella trattativa per la nascita del governo giallorosso. Più che i temi, come da giorni sul tavolo, da sciogliere era il nodo dei (o del) vicepremier. Dopo l’apertura di Dario Franceschini, che con un tweet aveva aperto alla possibilità che Conte nel suo secondo governo non avesse nessun vice, è arrivato attraverso un videomessaggio in diretta su Facebook il via libera di Luigi Di Maio, capo politico del Movimento 5 Stelle, che però in questi giorni ha dovuto fare in conti con l’attivismo di Beppe Grillo, tornato prepotentemente sul campo, e che non gli ha risparmiato più d’una stoccata sulla modalità della gestione della crisi.


Ora, il nuovo nodo è il ruolo che Di Maio occuperà nel nell’esecutivo che ormai sembra destinato a vedere la luce, sempre che dalla piattaforma Rousseau arrivi il via libera. Dopo l’altro videomessaggio, però, quello dello stesso Conte, che si è rivolto direttamente agli attivisti che dovranno esprimersi dalle 9 alle 18 sul portale del movimento e che ha apertamente invitato a non chiudere in un metaforico cassetto il programma del M5S, il sì pare destinato a prevalere, al netto degli umori non certo entusiasti della base pentastellata per un’alleanza con il “partito di Bibbiano“.


I toni usati da Di Maio nella diretta Facebook che che sbloccato la trattativa non sono stati certo concilianti con i dem. Il ministro del Lavoro ha accusato, neanche tanto velatamente, il Pd di aver perso tempo sia sul nome di Conte che sulla rinuncia a un vicepremier unico in quota democratica da affiancare a Conte stesso. Ma che ruolo rivestirà ora Di Maio nel nuovo esecutivo?

Inizialmente si era parlato della Difesa. Ma si tratta di un dicastero che, seppure di peso, segnerebbe un isolamento politico di quello che rimane pur sempre il capo politico della forza di maggioranza relativa in Parlamento. L’altra ipotesi è che l’ex vicepremier del governo giallloverde vada alla Farnesina: questa soluzione tuttavia non sembra gradita né al Pd, né allo stesso Di Maio.

Accettando Conte premier, e con ministeri come Economia e Interni che quasi sicuramente saranno occupati da esponenti “terzi” e tecnici, al Partito Democratico necessariamente dovranno arrivare dicasteri di peso: per gli Esteri si parla quindi di Andrea Orlando, che può contare da un lato sull’esperienza (è già stato ministro della Giustizia con Renzi e Gentiloni e dell’Ambiente con Letta) e dall’altro sull’attivismo nella tessitura del governo giallorosso.

Esclusi quindi i ministeri “pesanti” che dovranno essere necessariamente occupati da esponenti del Partito Democratico (e da Liberi e Uguali, senza cui la maggioranza al Senato banalmente non esiste) e quelli che andranno ai tecnici, che garantiranno un equilibrio fra le due forze maggiori sulle questioni più spinose come l’immigrazione (per gli Interni si parla dell’ex prefetto di Milano e consigliere di Stato Luciana Lamorgese) per Luigi Di Maio non resterebbe molto.

Potrebbe arrivare quindi una nuova, fino a poche ore fa imprevedibile, mossa del cavallo. Di Maio, che da più parti veniva indicato come irremovibile dall’abbandonare il ruolo di vicepremier, potrebbe scegliere di non entrare nell’esecutivo. A suggerirglielo sarebbero ragioni tutte politiche all’interno del Movimento: la nuova centralità conquistata da Beppe Grillo (di fatto, insieme a Matteo Renzi padri “nobili” della nascita del Conte due) e la popolarità di Giuseppe Conte rischiano di relegare Di Maio a un ruolo di second’ordine.

Di più, in prospettiva, se il governo giallorosso dovesse partire e guadagnare i favori dell’elettorato, la linea Di Maio si troverebbe in minoranza: soprattutto nell’eventualità che il governo Conte bis si trasformasse in un’alleanza elettorale nel quadro di un “nuovo centrosinistra”. Insomma a Di Maio conviene a questo punto presidiare il forte: gestire il ruolo di capo politico e sedersi sulla riva del fiume a guardare l’esecutivo dall’esterno potendo giocare la partita spesso vincente di chi, a fasi alterne, indossa la casacca della lotta e del governo.

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