Il Coronavirus e l’industria tessile: cosa succede ora ai lavoratori della grande filiera nei Paesi a basso reddito

Nel rebus ancora irrisolto del post-Coronavirus, c’è una domanda che aleggia tra le altre: chi salverà i lavoratori che producono i nostri vestiti?

Savar, periferia di Dacca, Bangladesh. Nell’aprile del 2013 un edificio commerciale di otto piani viene giù. Il crollo passa alla storia come la tragedia del Rana Plaza: 1.129 operai perdono la vita e 2.515 restano feriti, molti dei quali gravemente. La struttura ospitava gli stabilimenti tessili di grandi marchi commerciali occidentali. A sette anni dalla catastrofe che portò alla luce le condizioni di miseria e sfruttamento su cui si basano le produzioni multinazionali, un’altra emergenza torna a colpire i lavoratori della grande filiera tessile. Come salvare dalla crisi da Coronavirus milioni di persone in tutto il mondo?


«Quello che successe in Bangladesh fu un caso enorme su cui intervenire», racconta Deborah Lucchetti, coordinatrice della campagna italiana Abiti Puliti (Clean Clothes), che nel maggio del 2013 convinse 220 aziende tessili bengalesi a sottoscrivere l’Accordo per la prevenzione degli incendi e sulla sicurezza degli edifici. «Ma era uno. Adesso sta per arrivare un’ondata di richieste di aiuto da ogni parte del mondo. E capire come affrontarla non sarà facile».


Epa, Abir Abdullah | Rehana, una delle sopravvissute al crollo del Rana Plaza, 5 giugno 2013

La campagna Abiti Puliti è in contatto con tutte le imprese multinazionali (come il marchio H&M) per convincerle a rispettare i diritti dei lavoratori e delle lavoratrici nei vari stabilimenti di produzione, sia nel sud-est asiatico (vero e proprio polmone della produzione), che nel resto del mondo. Ma ora che l’emergenza ha di fatto bloccato gran parte della produzione – o l’ha resa ancora meno sicura e sostenibile di quanto già non fosse -, la campagna è in contatto diretto anche con i lavoratori della filiera attraverso un live blog sul sito internazionale.

Parliamo di 150 milioni di persone che producono beni per l’America del Nord, per l’Europa e per il Giappone, e di altre decine di milioni impiegati nei servizi. Le testimonianze non arrivano solo dal Bangladesh. Arrivano dalla Cambogia, dall’India, dalle Filippine, dal Myanmar, dallo Sri Lanka, dal Pakistan, dalla Malesia, dall’Indonesia. Ma anche da El Salvador in America Latina, o dall’Italia stessa, che, oltre a essere un paese di consumo, è anche attiva sulla produzione: «Ci sono filiere – spiega Deborah – che fanno parte di reti globali di produzione e i quali lavoratori hanno problemi anche nel nostro Paese».

I tre grandi problemi della filiera

Accanto all’emergenza sanitaria alle porte e dei dispositivi di protezione individuale che non esistono (dal distanziamento al rifornimento di mascherine), c’è il problema dei licenziamenti e dell’assistenza sociale. «Ci sono tre questioni enormi – spiega Deborah – La prima, da risolvere nel breve periodo, è quella di non lasciare i lavoratori per strada. Mentre i negozi chiudono e le filiere si congelano, gli accordi presi con i fornitori non vengono onorati. «Se non si pagano gli ordini ai fornitori, immediatamente questi lavoratori rimangono senza stipendi e coperture. Nei Paesi a Basso reddito quasi nessuno ha architetture che prevedono ammortizzatori sociali per imprese e le coperture per i lavoratori. Le imprese chiudono e gli operai si ritrovano a essere mandati casa».

Anche se la pandemia dovesse finire a breve, la certezza che queste fabbriche riaprano non esiste. «Questo è il secondo grande problema: cosa succederà ai lavoratori se gli stabilimenti non riapriranno?», dice Deborah. «La pandemia ha messo a nudo la fragilità di un modello economico basato sulla strozzatura dei costi e sulla non sostenibilità. Ma in questa strozzatura ci sono le persone e le loro vite galleggiano nell’incertezza». Il terzo problema, molto banalmente, sarà capire come si finanzieranno le misure di assistenza richieste dalle Ong, «per fare in modo che non finiscano solo nelle imprese».

Epa, Neyen Chan Naing | Una ragazza del Myanmar lavora tra pile di vestiti in fabbrica, 18 settembre 2015

La logistica

Il caso del magazzino H&M di Stradella, in provincia di Pavia, dove si sono registrati i primi due casi di contagio da Coronavirus, è un esempio della complessità del fenomeno nell’industria dell’abbigliamento. Lì i lavoratori e le lavoratrici della logistica (altra faccia della filiera tessile) sono impegnate nello smistamento degli ordini dallo store online. «Anche nei magazzini di smistamento dei capi H&M, che potremmo definire prodotti non essenziali, ci sono situazioni di grave rischio», dice ancora Deborah Lucchetti.

Dividere lo sguardo su un problema comune, quindi, sembra essere una strategia sbagliata. «Nel mondo globalizzato siamo tutti connessi», sottolinea. «Non possiamo pensare che l’economia europea sia slegata a quella del Sud e dell’Est del mondo. Se va a bagno quella, noi la seguiamo. Dopo questa pandemia niente sarà come prima – conclude Deborah – potrà andare o molto peggio o molto meglio. Sta a noi agire per il meglio».

Il parere degli esperti:

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