Coronavirus. Il virus sta mutando pericolosamente in Europa?

Esiste nel nostro Continente una mutazione dominante che ha reso il Coronavirus più veloce a trasmettersi? Plausibile, ma non ancora dimostrato

Ha suscitato una certa attenzione il preprint del team di ricerca guidato da LaBrance e Montefiori presso il Los Alamos National Laboratory, apparso su bioRxiv il 30 aprile scorso e aggiornato il 5 maggio. Si tratta di uno studio che deve ancora essere sottoposto a peer review per essere pubblicato in una rivista scientifica. Secondo la Cnn i ricercatori avrebbero scoperto una mutazione, che spiegherebbe come mai il nuovo Coronavirus è «un nemico così formidabile».

La ricerca si basa su una analysis pipeline, ovvero traccia le mutazioni riscontrate nella glicoproteina Spike (S), mediante i dati raccolti dal database del Gisaid. Come spiegano gli stessi autori, l’articolo non è altro che una versione formale del quarto report pubblicato dalla banca dati, riguardo a informazioni raccolte fino al 13 aprile scorso. 

Il focus dei ricercatori sulla proteina Spike (principale antigene del virus) è giustificato dal fatto che è indispensabile al virus per infettare le cellule, prendendo di mira i recettori ACE2 delle cellule. Visto che il Sistema immunitario si basa soprattutto sul riconoscimento degli antigeni, sviluppando i relativi anticorpi per arrestare i patogeni, studiarla significa avvicinarsi sempre più allo sviluppo di un vaccino e terapie efficaci.

I ricercatori hanno così individuato 13 mutazioni accumulatesi nel tempo, collegate alla proteina Spike. In particolare viene identificata la mutazione D614G, la quale partendo dalla Cina avrebbe avuto una particolare diffusione in Europa, «e altre parti del Mondo», a partire dai primi di febbraio, divenendo presto dominante «in molti Paesi». Il team di LaBrance e Montefiori esplora quindi i potenziali effetti nella trasmissione, patogenesi e risposta immunitaria. 

Il preprint è stato presentato in diversi media come una ricerca che mostrerebbe una «mutazione europea dieci volte più infettiva e dominante», ma dalla lettura di quanto riportato dal team di ricerca, di cui la Cnn fa una buona sintesi, si suggerisce – sulla base dei pochi studi rilevanti in merito – la possibilità che di tutte le mutazioni riscontrate, già di per sé rare nei Coronavirus, alcune abbiano portato a una maggiore trasmissibilità, o che sia divenuto più forte. Ma esistono anche studi che suggeriscono risultati diversi.

Cosa mostra lo studio e quali sono i suoi limiti

Non è facile stabilire dei nessi causali chiari al momento tra mutazioni nell’antigene e mortalità o trasmissibilità. Possiamo ragionare in termini di fasce d’età, ma è rilevante anche quanti tamponi vengono fatti nella popolazione. Tutti problemi di cui avevamo già trattato in precedenti articoli. Si aggiungono poi altre incognite, sulla sua resistenza nell’aria e gli effetti del caldo.

«SARS-CoV-2 è nuovo per noi – continuano gli autori – non sappiamo ancora se declinerà stagionalmente quando il clima si riscalda e l’umidità aumenta, ma la nostra mancanza di immunità preesistente e la sua elevata trasmissibilità rispetto all’influenza sono tra le ragioni per cui potrebbe non [succedere]».

Studiando il genoma virale abbiamo scoperto che è emersa una mutazione nota come D614G relativa alla proteina Spike, dominante sulle altre. È sicuramente apparsa in Europa a febbraio, ma si è poi diffusa in altri Paesi.

Le implicazioni e l’esistenza stessa di mutazioni significative, come suggerite nel lavoro di LaBrance e Montefiori, sono state oggetto di critiche fin dalla prima versione, che ricordiamo risalente al 30 aprile. 

Diversi virologi americani che seguono la pandemia si sono rivelati piuttosto scettici. Non è possibile infatti stabilire l’emergere di una nuova forma più trasmissibile del virus coi data base, bisogna anche verificare sperimentalmente questa correlazione tra mutazione e effettiva infettività. Men che meno – e non è intenzione dei ricercatori affermarlo – si può stabilire un nesso tra trasmissibilità e virulenza, ovvero la capacità del virus di farci del male. 

Da un lato i risultati dello studio di Los Alamos sono plausibili, dall’altro richiedono ulteriori studi per essere dimostrati. Tuttavia è legittimo che gli autori – i quali si sono fatti le ossa studiando Hiv-1 – pongano l’attenzione sull’eventualità che non ci stiamo trovando di fronte a un nemico statico. 

Sette milioni di positivi nel Mondo corrispondono ad altrettante possibilità per il virus di sfruttare le mutazioni vantaggiose per adattarsi. Sempre nell’ottica di immaginare il peggior scenario possibile, onde non farci trovare più impreparati, è bene non prendere troppo sotto gamba la possibilità di trovarsi con un virus più forte, o più veloce a trasmettersi, nei prossimi mesi. In assenza di un vaccino sarebbe un lusso che non potremmo permetterci.

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