In Evidenza ENISiriaUSA
ECONOMIA & LAVOROCoronavirusItaliaLavoro e impresaSanitàSicurezza sul lavoroSmart workingWork in progress

Il lavoro agile da necessità a virtù, ma non in Italia. Ecco perché siamo ultimi in Europa sullo smart working

28 Luglio 2020 - 08:05 Andrea Garantola
L’emergenza sanitaria ha reso necessario il lavoro a distanza, ma manca una politica capace di agevolare nuove forme di lavoro e di abbandonare una cultura basata sulla gestione dei dipendenti in ufficio

Lo smart working ha salvato molte aziende durante il lockdown e ha permesso – in parte – la continuità lavorativa per alcuni, anche se l’attività svolta durante la fase acuta della pandemia aveva ben poco di “agile” e molto “telelavoro”. Prima dell’emergenza sanitaria si contavano circa 570mila lavoratori agili, mentre a maggio 2020 si è arrivati a oltre 4 milioni di lavoratori. Numeri che evidenziano una rivoluzione nelle modalità di svolgimento della prestazione lavorativa e che devono portare a una vera riflessione culturale da parte di tutti gli operatori coinvolti nel mondo del lavoro, dalle aziende ai lavoratori, dalle parti sociali al legislatore. 

Le aziende sono state costrette ad attuare modalità di lavoro alternative per tutelare la sicurezza e garantire la continuità aziendale, la pubblica amministrazione (priva di ammortizzatori sociali) ha dovuto ricorrere al lavoro da casa, i lavoratori e le parti sociali hanno tollerato una “iperconnessione” per non perdere quote di retribuzione sospendendo l’attività. Se fino a oggi il lavoro agile non era ancora considerato una parte integrante delle ordinarie modalità di svolgimento del lavoro subordinato, oggi rappresenta invece il passo obbligato per la riconversione del lavoro -anche digitale – delle aziende.

Mentre in Francia l’istituto nazionale di ricerca sancisce che tra marzo e maggio 2020 il 34% degli occupati svolgeva la propria attività da casa, in Italia l’Istat afferma che l’incidenza del lavoro in home working sale al 12,6% con un aumento di 8,1 punti percentuali rispetto all’anno precedente, fino ad arrivare al 18,5% ad aprile 2020, con oltre 4 milioni di lavoratori coinvolti. Ma non sembra essere abbastanza, dato che i potenziali beneficiari sarebbero circa 8 milioni di lavoratori. 

In Italia sono diversi i fattori che portano ad avere numeri così basi rispetto al resto dei paesi europei: una rigida organizzazione del lavoro fondata ancora sulla necessaria presenza negli uffici, piccole e medie aziende prive degli strumenti per avviare una vera riconversione digitale del lavoro, assenza di agevolazioni e di politiche volte a favorire forme alternative di svolgimento del lavoro, assenza di dialogo tra le parti sociali e mancanza di una contrattazione volta a favorire la produttività.

Il lavoro agile non dovrebbe essere considerato alla stregua di un benefit del lavoratore o di una misura adottata solo per far fronte all’emergenza sanitaria. Servirebbe una nuova cultura del lavoro, che si affranchi dai pregiudizi, per modernizzare l’organizzazione e garantire ai lavoratori una migliore conciliazione tra l’attività lavorativa e la vita sociale, a fronte di una maggiore produttività e competitività delle imprese.

Leggi anche:

Articoli di ECONOMIA & LAVORO più letti