Consiglio europeo, il Recovery Fund può (ancora) aspettare. E su Brexit si prospetta una soluzione senza accordo

Il perpetuarsi dei negoziati allontana la possibilità di avere il fondo attivo e funzionante entro gennaio

Appena due settimane dopo l’ultima volta, oggi si è riunito il Consiglio europeo. Il vertice si è concentrato sull’accordo post-Brexit e l’agenda verde del 2030, ma la seconda ondata di Covid-19 ha costretto il presidente Charles Michel a riorganizzare l’agenda. Inoltre, dopo che il Parlamento europeo ha rifiutato il compromesso proposto dalla presidenza tedesca, e la minaccia di veto della Polonia nel caso venga vincolata l’erogazione dei fondi al rispetto dello stato di diritto, i 27 hanno parlato anche del Recovery Fund (Ngeu). In teoria il 15 ottobre doveva essere il giorno in cui gli Stati membri avrebbero presentato le prime bozze dei programmi per l’impiego del Ngeu, invece ancora non c’è neanche la garanzia che i fondi arrivino entro i tempi stabiliti. Il vertice del 15 e 16 ottobre è un’opportunità per discutere informalmente, superare le divisioni e gettare le basi per i compromessi. Prima ancora dell’inizio dei lavori, la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, ha dovuto allontanarsi per andare in isolamento dopo aver saputo di un contagio nel suo staff. Anche se nessuno vuole ammetterlo, probabilmente questo sarà l’ultimo summit in presenza per un po’ di tempo, e in questo genere di negoziati i colloqui diretti tra leader fanno la differenza.


Il dilemma del Parlamento europeo

Il summit informale è iniziato subito. Dopo i saluti di rito, il presidente del Parlamento europeo, David Sassoli, è rimasto con i leader per discutere sullo stallo che si è creato tra Consiglio e Parlamento sul Budget pluriennale (Mff) e il Recovery Fund. Gli europarlamentari vogliono un aumento dei fondi destinati ai programmi gestiti direttamente dall’assemblea, come l’Erasmus, l’Innovation Fund e altri programmi indipendenti dai governi. Ieri le parti si sono trovate in disaccordo, è finita con le accuse reciproche di aver presentato cifre fuorvianti sui fondi aggiuntivi, creando uno stallo che compromette ulteriormente la tabella di marcia del Ngeu. Anche l’incontro di oggi non è andato bene. Sassoli ha confermato con fermezza la posizione degli europarlamentari: bisogna aggiungere 39 miliardi di euro alla proposta esistente. Una somma definita «irrisoria se confrontata con un pacchetto di aiuti dal valore complessivo di 1800 miliardi di euro, ma che farebbe un’enorme differenza per i cittadini che trarranno vantaggio dalle politiche comunitarie». Il problema è che il vertice di luglio ottenne il risultato grazie alla logica intergovernativa, scavalcando il Parlamento europeo, che non ha mai accettato né il sacrificio imposto dal punto di visto pratico con il taglio dei fondi, né da quello dei principi, cedendo ai Paesi di Visegrad (V4) sul rispetto dello stato di diritto. Adesso, almeno dal punto di vista “pratico” qualcosa dovrà essere concesso, ma è un braccio di ferro che chiama in causa la credibilità dell’istituzione: cosa conta di più, far rispettare lo stato di diritto nei V4, o cedere sui valori in cambio di un budget più generoso? 


Se combinare il Mff e il Ngeu è stato uno sbaglio

I negoziati per il bilancio europeo sono sempre stati lungi e difficili, la discussione per il Mff 2014-2020 durò due anni. In un momento storico diverso uno stallo di questo tipo non sarebbe considerato così importante. Adesso invece tutte le parti coinvolte devono affrontare la pressione di non bloccare un pacchetto di stimoli, finanziamenti e aiuti essenziali per arginare la recessione più violenta di sempre. Visto come stanno andando le cose, forse è stato un errore combinare Mff e Ngeu in un solo processo decisionale. Alla fine un accordo sarà trovato, l’Ue esiste per questo, ma considerando che anche in condizioni normali il percorso di ratifica è un processo piuttosto lungo, il perpetuarsi dei negoziati allontana la possibilità di avere il fondo attivo e funzionante entro gennaio.

A proposito di Brexit

Tuttavia, il tema cardine della giornata era l’accordo con il Regno Unito per la Brexit, nodo rimasto ancora irrisolto dopo quattro anni dal referendum che ha sancito il divorzio tra le due sponde della Manica. Stavolta però non c’è divisione, dal punto di vista dell’Ue l’accordo è stato raggiunto, sta al Regno Unito rispettarlo. Come concordato nelle conclusioni finali, i leader sono pronti a negoziare ancora, ma restando uniti sul rispetto delle linee rosse già stabilite. Perciò, i leader hanno chiesto alla Commissione europea di prepararsi anche a uno scenario di Brexit senza nessun accordo. Una posizione riassunta alla perfezione dalla Cancelliera tedesca Angela Merkel a inizio giornata: «Vogliamo un accordo, ma non a qualsiasi prezzo», una posizione sostenuta anche dal premier italiano Giuseppe Conte. La palla è nelle mani di Londra, sta al premier britannico Boris Johnson decidere se continuare a negoziare oppure no. A giudicare dal primo commento di David Frost, negoziatore e consigliere di Johnson, le premesse non sono buone. Secondo Frost, l’Ue non è più impegnata a lavorare “intensamente” per raggiungere una partnership con il Regno Unito.

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