Brexit, no deal sempre più vicino. Quanto può costare agli italiani l’addio del Regno Unito all’Ue senza accordo?
Continuano i negoziati sulla Brexit, con l’uscita senza accordo che sembra sempre più probabile. L’11 dicembre Boris Johnson ha ribadito che il no deal commerciale è «molto, ma molto probabile» in assenza di una «grande offerta» da parte dell’Unione europea, mentre fonti europee riferiscono che sia la Francia, sia la Germania avrebbero rifiutato una telefonata con il premier britannico lunedì, insistendo che spetta alla Commissione europea condurre i negoziati. Dal canto suo la presidente della Commissione Ursula von der Leyen, sostiene che ci sia «la percentuale più alta per un no deal», senza specificare quale, anche se alcuni tra i principali siti di scommesse danno il no deal a oltre il 60%.
Nel frattempo, diversi indici economici stanno dando un assaggio di quali potrebbero essere le ricadute di un no deal nell’anno del Coronavirus. A partire dalle borse europee: l’11 dicembre Londra ha perso lo 0,95%, Parigi l’1,39%, Francoforte l’1,94% e Milano 1,4%. Il premier Conte ostenta sicurezza – «abbiamo predisposto tutto» -, mentre le aziende italiane si preparano al peggio. Confindustria Vicenza, per esempio, ha già avviato una sezione sul proprio sito – SOS Brexit – per aiutare le oltre 1.400 aziende vicentine che esportano nel Regno Unito. Ma quale sarebbe il costo per l’Ue e per l’Italia di un’uscita senza accordo?
Germania e Francia colpite più dell’Italia
File di tir e di camion nella Manica, nuovi dazi, inflazione: sono alcune delle conseguenze che vengono ipotizzate sul lato britannico nel caso di un mancato accordo. Come ha avvertito l’ufficio britannico per la responsabilità di bilancio, il Pil d’oltremanica potrebbe contrarsi del 2%. Non sorprende, visto che il 43% degli export britannici l’anno scorso erano verso l’Ue (per un valore complessivo di £294 miliardi). Come riporta il Times, con un no deal le tariffe sulle esportazioni di automobili, di prodotti latticini e di carne potrebbero essere rispettivamente del 10, 25 e oltre il 40 percento.
I prezzi dei prodotti alimentari probabilmente aumenteranno, se i pescatori britannici avranno effettivamente meno competizione da parte degli europei non mancheranno le tensioni e possibili scontri, il traffico di persone tra i due blocchi rallenterà, la condivisione dei dati sarà più farraginosa, l’approvvigionamento di farmaci e medicinali più complicato, le ricadute sul settore finanziario, che vedrà il suo bacino di clienti ridursi, sostanziali. Ma il Regno Unito dopotutto importa più prodotti dall’Unione europea di quanti non ne esporti, il che avrà un effetto sui guadagni dell’industria continentale e sui consumi degli europei.
A soffrire di più dovrebbero essere la Germania (con perdite stimate fino a 8,2 miliardi di euro), i Paesi Bassi (4,8 miliardi di euro) e la Francia (3,6 miliardi di euro). A seguire, sempre secondo i calcoli del Times, nella lista dei Paesi europei che potrebbero essere più colpiti da no deal ci sono il Belgio (3,2 miliardi di euro) e l’Italia (2,6 miliardi di euro). «L’ultima cosa di cui ha bisogno [l’Unione europea ndr] è un’ulteriore perdita di circa 33 miliardi in esportazioni annuali» oltre ai danni già causati dal Coronavirus, scrive il Times.
La guerra del prosecco
Si tratta di stime complessive: l’impatto varia da settore a settore. Nel caso della Francia, per esempio, a perdere saranno soprattutto i produttori di vino, di latticini e i pescatori che non potranno accedere liberamente alle acque territoriali britanniche. Come nel caso della Francia, anche in Italia le industrie più colpite dovrebbero essere i produttori di bevande e gli agricoltori. Nel 2016 Johnson aveva indispettito i produttori di prosecco dicendo che tale era la domanda per lo champagne italiano nel Regno Unito, che l’Italia sarebbe stata costretta a cedere nei negoziati.
Così non è stato, ma effettivamente un’uscita senza accordo sarebbe un bel problema per i nostri produttori, visto che oltre alla metà del prosecco italiano viene acquistato in Gran Bretagna. A questo si sommerebbero dazi su circa 21 miliardi di sterline di esportazioni annuali, dai prodotti della moda ai formaggi passando per le automobili.
Complessivamente, l’impatto sugli export italiani dovrebbe essere attorno al 5% del totale. Ma guai a dire che è una cosa da poco, dichiara a Open Antonio Villafranca dell’Ispi. «Anche se è vero che il dato complessivo è del 5% circa, è anche vero che noi abbiamo un surplus commerciale molto grosso e peraltro in crescita da anni. Poi, questo surplus è concentrato in alcuni settori – dalle bevande all’automotive, passando per la meccanica strumentale – che sentirebbero l’effetto molto più di altri».
Nel lungo periodo subentreranno altre considerazioni, come la lontananza da Londra in politica estera, il raffreddamento nei rapporti diplomatici che potrebbe risultare da un no deal e il costo in termini di cooperazione e condivisione di informazioni. «Inserire in Europa, soprattutto in questo momento, un elemento di instabilità come Brexit non fa per niente bene. Il rischio è che, in una situazione in cui c’è già una crisi economica, si possa creare una spirale di instabilità che fa aumentare lo spread».
«Un nuovo inizio per l’Unione europea»
Enrico Letta non sarebbe necessariamente d’accordo. Per l’ex premier italiano, l’accordo sul Next Generation Eu (Recovery Fund), raggiunto nei giorni scorsi, è stato possibile, oltre che per la pandemia, anche «perché è uscita la Gran Bretagna, che frenava prima quando si trattava di fare grandi avanzate». L’accordo, secondo Letta, rappresenta «un nuovo inizio per l’Unione europea» che potrebbe guadagnarne anche dal punto di vista della stabilità e della compattezza. Bisognerà aspettare l’anno prossimo per vedere gli effetti dei 209 miliardi di euro in fondi e prestiti europei sull’economia italiana e nel frattempo, salvo colpi di scena, la Brexit sarà già avvenuta, con o senza accordo.
Certo, bisognerà tenere conto anche dei contributi dell’Italia al budget europeo, che dovrebbero aumentare con l’uscita del Regno Unito – e già finora l’Italia è stata un contributore netto, versando più di quanto ricevuto? La prossima settimana il Parlamento europeo voterà in plenaria il pacchetto del bilancio e a quel punto partirà anche nei parlamenti nazionali il procedimento per ratificare le nuove risorse che andranno a finanziare il budget. Con i nuovi prestiti e finanziamenti europei in teoria l’Italia dovrebbe tornare ad essere un beneficiario netto. Se così non fosse, basteranno i finanziamenti del Next Generation Eu per recuperare il costo di un incremento nei contributi al budget europeo dovuto anche alla Brexit?
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