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Brexit means Brexit, le prossime mosse del Regno Unito tra l’esultanza di BoJo e il progetto di un paese «globale»

25 Dicembre 2020 - 23:00 Maria Pia Mazza
Secondo i principali analisti stranieri, la vittoria del primo ministro non lo mette al riparo dagli agguati di partito. Come spiega a Open il giornalista Federico Gatti molto conterà la capacità di mettere in piedi la Global Britain

«Un sollievo». Non esiste altra parola che, nel day after, possa descrivere lo stato d’animo generale dopo l’accordo raggiunto tra Regno Unito e Unione europea sulla Brexit. Un percorso iniziato nel giugno 2016 e che si è concluso, ai limiti quasi dell’esasperazione generale, solo nel tardo pomeriggio del 24 dicembre 2020. Oltre quattro anni di euforia mista a preoccupazione, quest’ultima aggravatasi soprattutto nelle ultime settimane con la pandemia di Coronavirus. Per alcuni una vittoria, come nel caso del primo ministro britannico Boris Johnson; per altri senso di accettazione con veli di amarezza, ma pur sempre «un sollievo». «What we call the beginning is often the end, and to make an end is to make a beginning», ribadiva in conferenza stampa, dopo il deal, la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, citando un passo di Little Gidding del poeta inglese T.S. Eliot. Ma scendendo in profondità, passando dai vertici istituzionali e giungendo al “sentire popolare e nel viver quotidiano”, l’umore è pressoché il medesimo: relief, relief, relief. Anche sul fronte di chi, in un certo senso, la Brexit non la voleva. Del resto «si è scongiurato il no deal, ed è stato un secondo regalo alla nazione dopo il vaccino, come dichiarato da Boris Johnson nel suo messaggio di auguri natalizio. Ma le divisioni interne sul tema rimangono e rimarranno, perché comunque è un accordo che rappresenta dei vantaggi minori rispetto a quelli che rappresentava la partecipazione del Regno Unito al progetto europeo», spiega a Open Federico Gatti, corrispondente dal Regno Unito per Mediaset e giornalista per The Bureau, Financial Times, Bbc, Al Jazeera e Channel 4.  

La paura dell’isolamento

Secondo Gatti, i britannici provano, a questo punto, soprattutto un sentimento di sollievo per un impasse politico che sembrava condannato a non risolversi mai. «La popolazione sta vivendo, ovviamente, un Natale molto difficile, per i problemi pandemici: un no deal sarebbe stato sicuramente un ulteriore shock sia per l’economia, sia per l’umore nazionale. Devil is in the details, come si suol dire, e bisognerà analizzare l’accordo di oltre 2.000 pagine con dovizia. Ma quel che si percepisce a Londra è certamente un sospiro di sollievo, perché si è evitato il no deal». Come hanno notato molte testate internazionali, a cominciare dagli analisti della Cnn, l’allarme per la variante Covid in circolazione considerata, al momento, più contagiosa delle altre, ha portato i residenti della Gran Bretagna a sperimentare improvvisamente cosa potesse voler dire chiudere le frontiere con l’Europa senza accordo. E di lì, le corse nei supermercati, la paura di non trovare più i cibi freschi a cui anche gli strati sociali medi sono ormai abituati. Il blocco dei voli, poi, non si è ancora risolto del tutto. Molti Stati, spaventati dalla contagiosità della variante isolata nel Regno Unito hanno mantenuto regole molto stringenti. Anche su questo punto Gatti racconta di aver visto un Paese particolarmente spaventato dalla sensazione di essere isolati su un’isola in cui i contagi crescono. E l’idea che la Francia in particolare abbia cavalcato la paura del nuovo tipo di virus per bloccare gli scambi? Il sospetto circola, ammette Gatti: «“I “maligni” sostengono che la Francia abbia voluto chiudere il porto di Dover per delle “prove generali” di no deal: “Siete pronti al walk away? Allora adesso ti chiudo tutto e vediamo come fate”, insomma. Boris Johnson ha detto che dal 1 gennaio ci sarà comunque il minimo impatto tra le merci in entrata e uscita, e la situazione tenderà a tornare alla normalità nei prossimi giorni. Di certo ha influito, e non poco, questo blocco imposto dalla Francia, malgrado la Commissione Europea si era detta contraria».

La vittoria al fotofinish di BoJo

Inutile dire che quella di Boris Johnson è considerata una vittoria, peraltro non da tutti attesa: è il politico britannico che è riuscito a concludere le trattative per uscire dall’Europa, con un risultato dignitoso (anche se secondo molti critici la soddisfazione nasconde le beghe di un intesa non del tutto vantaggiosa per l’isola della Regina). Come tanti leader del partito conservatore, anche BoJo è sempre a rischio, ostaggio delle liti interne di una organizzazione che pur mantenendosi stabilmente al potere non riesce a trovare un suo equilibrio interno. L’analisi di Politico, ad esempio, non esclude che Johnson finisca per essere considerato un “traditore” del voto, come è accaduto a Theresa May. Possibili sostituti? «Si parla di Rishi Sunak, il giovane cancelliere dello scacchiere che sta guadagnando molti consensi, anche per la gestione della pandemia. Ma quella del partito conservatore è una partita aperta, e da gennaio in poi si vedrà come verrà presentato questo accordo di Brexit», aggiunge Gatti.

La Global Britain

Se non è del tutto chiaro cosa cambia per gli inglesi, sappiamo già cosa cambia per gli europei. Non si potrà più approdare nel Regno Unito a “cercar fortuna” perché bisognerà avere in tasca già un contratto di lavoro da più 26.500 sterline annue. Alcuni settori, ad esempio quello agricolo, hanno già fatto degli accordi ad hoc con i Paesi dell’Est per i visti stagionali. Ma non è così per il settore alberghiero o della ristorazione. Lì bisogna ancora vedere se la manodopera inglese sostituirà quella europea. Nell’epoca del Coronavirus, un tema potrebbero essere i servizi ospedalieri. Il 20% degli infermieri è europeo attualmente, ma le nuove leve non potranno più arrivare a coprire la carenza di personale inglese. Niente più tariffe agevolate per gli studenti europei che arrivano in Gran Bretagna dall’Europa, ma secondo Gatti i problemi sono anche altri: «Un nodo critico è anche quello del turismo: chi dovrà venire in Gran Bretagna dovrà essere munito di passaporto e sarà necessario anche un visto e il pagamento di una tassa, sulla falsariga statunitense. Ci sarà un impatto sul turismo, quantomeno col fronte europeo, ma non è detto che avvenga con altri Paesi nel mondo». Dal punto di vista industriale, invece, il Regno Unito sembra avere le idee più chiare. Liberarsi dai vincoli europei, secondo il partito del Leave, è la mossa decisiva per costruire la Global Britain, hub verso il mondo. «L’intento – conclude Gatti – è quello di diventare una sorta di Singapore del Mare del Nord, o comunque dell’Occidente. L’obiettivo è quello di essere i precursori della nuova transizione tecnologica 4.0. Un punto decisivo saranno le agevolazioni fiscali per le industrie che si occupano di intelligenza artificiale per guidare la nuova rivoluzione economica che avrà a che fare, inevitabilmente, con l’AI». Ci aveva già provato David Cameron, è possibile che Johnson (o il suo successore) tenti la stessa carta.

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