Gianna Gancia: «Io, leghista ed europeista, dico sì alla svolta di Salvini. Ora lasceremo il gruppo sovranista a Strasburgo» – L’intervista

L’europarlamentare si batte da tempo per l'”Europa dei popoli”. E sull’immigrazione dice: i porti chiusi non servono

Piemontese doc, come i vini che la sua famiglia, dal lontano 1850, produce nell’Astigiano: Gianna Gancia, europarlamentare della Lega, ha iniziato a fare politica prima ancora della nascita del Carroccio. «Avevo avuto rapporti con il Partito liberale già dagli anni del liceo», racconta. Ma c’è un’altra denominazione della sua origine che caratterizza il percorso politico della deputata: «Ho sempre creduto nei valori europeisti, liberali e federalisti». Adesso che il suo partito, per aderire al governo Draghi, ha dovuto fare un coming out nei confronti dell’Unione europea, Gancia vive con più serenità il suo mandato a Bruxelles.


«La Lega ha l’opportunità di trainare il centrodestra italiano e giocare una partita importante per realizzare l’Europa delle regioni, forte diplomaticamente e con una difesa comune». Gancia, 48 anni, milita nel partito dal ’91. Ha dovuto abbandonare la facoltà di Giurisprudenza al primo anno, in seguito alla morte del padre, per prendere le redini dell’azienda che esporta vini spumante in tutto il mondo. «Compatibilmente con gli impegni aziendali, ho seguito la crescita del movimento – la Lega era un movimento in costituzione – dagli albori». Ricorda le tante chiamate di Umberto Bossi per convincerla a fare politica attiva e una candidatura nel 2001, poi saltata, nel collegio di Bra: quell’anno e in quello stesso collegio suo cugino, Guido Crosetto, ottenne per la prima volta un seggio alla Camera con Forza Italia.


È nel 2009 che Gancia assume la prima carica, vincendo le amministrative della provincia di Cuneo. Cinque anni dopo entra nel Consiglio regionale e poi, con quasi 20mila preferenze, ottiene lo scranno al parlamento europeo nelle elezioni del 2019. «Il nostro partito deve porsi come promotore di un nuova stagione dell’Europa, liberale e federalista. Ci sono ancora molti problemi in seno alle istituzioni europee, spesso bloccate dalla burocrazia e vittime degli egoismi dei singoli Stati nazionali. Ma i segnali di un cambiamento ci sono», dice, sottolineando come la Lega non sia mai stata un partito anti-europeista. «Sin dalle origini, noi credevamo in un’Europa dei popoli».

Onorevole, tutti ricordiamo i leghisti che indossavano le magliette “no euro”, che inveivano contro Bruxelles e che non proiettavano il loro sguardo oltre la “Padania”. Che fine hanno fatto?

«Se la Lega non avesse mai usato quel tipo di narrazione, il partito non avrebbe mai sfondato in termini di consenso. Personalmente, sono anni che, internamente e nel rispetto delle diverse sensibilità del partito, faccio leva affinché emerga la nostra anima moderata, liberale, europeista e federalista».

Fino al voto del 10 febbraio, sul Recovery la Lega in Europa aveva fatto sempre ostruzionismo nei confronti del piano di rilancio post-pandemico. Anche quella era solo una narrazione?

«È dallo scorso autunno che ho lavorato affinché anche il mio partito iniziasse a dare un contributo al Recovery, anche in termini di voto. Il fatto contingente della crisi di governo ha dato un’accelerata a un processo che già era in corso: una riflessione sul riposizionamento della Lega in Europa».

Mentre parla di riposizionamento, però, la Lega continua a presiedere il gruppo sovranista dell’europarlamento, Identità e democrazia, del quale fanno parte i nazionalisti di Rassemblement National e Alternative für Deutschland. Arriverete a lasciare il gruppo euroscettico?

«Penso di sì, la Lega dovrà staccarsi da Identità e democrazia. Ma è un processo delicato e che richiede del tempo».

Il carpiato leghista vi ha portato addirittura a formare una maggioranza con il Pd e Leu. È soddisfatta dalla composizione del governo Draghi?

«In un momento così difficile per le ragioni economiche e sanitarie che conosciamo, credo che questo possa essere il governo giusto. Lasciamo lavorare la squadra di Mario Draghi, un giudizio definitivo, adesso, è prematuro. È necessario ricordare che il Recovery è in gran parte un debito: spero che ci riflettano tutti i membri dell’esecutivo, la bussola deve essere orientata sul debito buono. Lo dice una che è stata sempre rigorista sui conti».

Anche questa, perdoni, è una sorpresa: un anno e mezzo fa, Matteo Salvini diceva che si dovevano sforare i vincoli europei in tema di debito e deficit, se necessario.

«Ripeto, la narrazione può essere anche diversa da ciò che poi si fa per davvero. Io credo che avere rigore con i conti faccia bene. Nel mio piccolo, occupandomi della provincia di Cuneo, ho visto che limare la spesa è possibile e innesca processi positivi».

Adesso i fondi arrivano, c’è il Pnnr da definire, quali sono per lei le aree di investimento prioritarie?

«Digitalizzazione, formazione, e vanno riviste sia la scuola che l’università italiana, fatte più a misura di professori che di giovani, la questione femminile, le politiche attive per il lavoro dei ragazzi, e la svolta green».

Altra contraddizione rispetto alla storia leghista: non mi pare di avervi mai visto lottare a fianco degli ambientalisti.

«La Lega è sensibile al tema. Diciamo che tra Greta Thunberg e buttare i rifiuti nel mare c’è una via di mezzo, ed è quella che seguiamo noi».

Possiamo dire che la Lega, da movimento populista, ha raggiunto la sua maggiore età dopo i 30 anni di storia?

«Non posso condividere la sua analisi in questi termini, ma posso dire che apprezzo il gesto che ha fatto Salvini caldeggiando la nascita del governo Draghi. Il segretario della Lega ha messo da parte gli interessi personali di consenso e ha fatto fare il salto di qualità al soggetto politico Lega-Salvini premier».

Questa vostra maturità o responsabilità che dir si voglia creerà attriti con gli alleati di coalizione, Fratelli d’Italia?

«No, già alle amministrative correremo insieme, nella stessa coalizione di centrodestra. Ma io sono europarlamentare e guardo a un’altra sfida: dobbiamo ancora fare la vera Europa, renderla geopoliticamente forte. Per responsabilità anche dell’Italia, per anni la Ue ha dovuto subire un certo rigidismo franco-tedesco. Adesso, l’arrivo di Draghi al governo italiano, ci permetterà di essere protagonisti nel percorso di rinnovamento dell’Europa, che ci permetterà di lavorare anche sui grandi problemi del nostro tempo, come l’instabilità del Nord-Africa…».

E l’immigrazione?

«L’immigrazione è un problema europeo e tutta la Ue deve farsene carico. È un problema strutturale, invece viene gestito ogni anno come se fosse un problema emergenziale. Per ora, assistiamo a egoismi nazionali degli Stati membri, tant’è vero che la presidente von der Leyen non è riuscita a ricondurre tutti a un’obbligatorietà di quote. Ma l’accordo di Dublino andrà superato se vogliamo fare davvero l’unità dell’Europa».

Nel frattempo, è giusto andare avanti con la politica dei porti chiusi?

«No, non sono i porti chiusi la strada. Quando hai gente che muore di fame e di sete, l’Europa deve intervenire per risolvere all’origine queste problematiche. Mi rincresce che siamo ancora lontani da un progetto comune di difesa dei confini: è auspicabile un esercito di difesa europeo. Si tratta di un processo lento, ma necessario, se vogliamo raggiungere davvero un’unità europea».

È passato oltre un anno dall’insediamento di Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione. La Lega non ha appoggiato la sua designazione. Avete cambiato idea?

«Sicuramente è una donna che ha dimostrato una certa empatia, sta interpretando il ruolo di presidente di Commissione in modo diverso dal passato. Si rivolge direttamente alle Nazioni, parlando la lingua di tutti. Mi è affine l’approccio della presidente, i suoi predecessori interpretavano quel ruolo in modo più burocratico. La sua sfida, adesso, è superare gli egoismi nazionali che ci sono ovunque, non solo nell’Ungheria di Orban».

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