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Scontro Draghi-Erdogan: perché nessun altro leader europeo ha definito il premier turco un dittatore?

10 Aprile 2021 - 13:14 Federico Bosco
L’unico a essersi schierato a fianco del premier è stato Manfred Weber, presidente del Partito Popolare Europeo. No comment della Germania e silenzio della Francia

Definire in maniera diretta la realtà delle cose era quasi diventata un’arte perduta della politica europea, ma il premier Mario Draghi non è un politico, non formalmente. Pochi minuti dopo aver definito il presidente turco Recep Tayyip Erdogan «un dittatore», la frase è stata diffusa da tutte le agenzie, molti italiani l’hanno accolta come una liberazione, quasi un altro «whatever-it-takes». Tuttavia, l’altra parte del discorso è «di cui abbiamo bisogno», ed è questo il problema. Sono anni che i leader europei lanciano proclami umanitari mentre coccolano e stringono legami con dittatori e governi autoritari, diventandone dipendenti: il petrolio saudita, il gas e presto forse il vaccino della Russia, la tecnologia, la produzione e il commercio bilaterale con la Cina, il blocco dei flussi migratori con la Turchia, che adesso riguarda anche la Libia, da cui importiamo idrocarburi mentre la Guardia costiera “salva” i migranti che tentano di raggiungere l’Europa. 

Anche con la Turchia, al di là dell’immagine e della retorica, c’è un’intensa collaborazione. Erdogan ci sta facendo molti favori, il più noto dei quali è il blocco degli oltre 4 milioni di rifugiati in cambio di 6 miliardi di euro (finora Ankara ne ha ricevuti circa 4,5 di miliardi), ma non solo. L’intervento militare in Libia, sia in forma diretta (con soldati regolari) che indiretta (con milizie filo-turche), è una parte della storia poco raccontata in Europa.

L’intervento turco in Libia è iniziato a gennaio 2020 e in pochi mesi ha portato alla sconfitta di Khalifa Haftar e delle sue ambizioni di riunificare il Paese e diventare il nuovo Muammar Gheddafi. Il generale della Cirenaica era nel pieno dell’offensiva finale, aveva chiuso i pozzi di petrolio (poi fatti riaprire dalla Russia, sua alleata con milizie sul campo), era arrivato all’aeroporto di Tripoli ed era vicino a sconfiggere il governo di Fayez al-Serraj, quello abbracciato da Roma e riconosciuto dall’Ue. Senza l’intervento di Ankara non si sarebbe mai arrivati al pacifico passaggio di consegne tra al-Serraj e il nuovo premier Abdulhamid Dabaiba (quello incontrato da Draghi).

Riguardare le foto che raccontano questa settimana di missioni diplomatiche in Libia dei leader di Italia, Grecia e Unione europea conoscendo questa storia aiuta a rimettere le cose nella giusta prospettiva. L’azione diplomatica dell’Europa è stata pressoché irrilevante, quella militare della Turchia decisiva. Tutto ciò chiederà delle contropartite, magari proprio nei giacimenti contesi del Mediterraneo orientale tra Creta e Cipro, e un altro accordo miliardario per fermare migranti. Non stupiamoci quando gli saranno date. 

Questo spiega anche l’assenza del supporto dei colleghi europei alle dichiarazioni di Draghi. L’unico a essersi schierato a fianco del premier è stato Manfred Weber, presidente del Partito Popolare Europeo, che in una dichiarazione ha detto che con Erdogan la Turchia si è allontanata dallo stato di diritto e non è più un Paese libero. Molto meno coraggiose le dichiarazioni di un portavoce della Commissione europea: «La Turchia è un Paese che ha un parlamento eletto e un presidente eletto, verso il quale nutriamo una serie di preoccupazioni e con il quale cooperiamo in molti settori. Si tratta di un quadro complesso, ma non spetta all’Ue qualificare un sistema o una persona»

Considerando che tutto è stato scatenato dal comportamento di Erdogan nei confronti della presidente della Commissione von der Leyen, e vista la crisi diplomatica Italia-Turchia che ne è conseguita, da Bruxelles era lecito aspettarsi solidarietà e non una presa di distanza. Neanche il presidente francese Emmanuel Macron e il premier greco Kyriakos Mitsotakis (i più coinvolti nella regione) hanno fatto dichiarazioni in merito. La portavoce del governo tedesco, sollecitata, si è trincerata dietro al «no comment», sia sulle parole di Draghi che sul caso della poltrona mancante. Ma in Germania i turco-tedeschi sono milioni, in larga parte sensibili ai richiami di Ankara.

A Bruxelles, invece, sono concentrati sulla ricerca del colpevole del Sofagate. Sembra che dopo tre giorni i presidenti del Consiglio e della Commissione ancora non si siano parlati. Erdogan non ha solo snobbato una leader donna, ma una leadership divisa. Da giocatore qual è, il presidente turco ha cercato l’anello più debole e l’ha trovato proprio dove voleva: nella divisione tra Consiglio e Commissione, nella competizione tra staff. Erdogan ha assegnato un ruolo gerarchico più alto al presidente del Consiglio mentre la figura che più assomiglia a un capo del governo europeo è chi presiede la Commissione. 

Sulla carta l’idea di una Commissione geopolitica che si occupi delle relazioni internazionali dell’Unione Europea sembrava perfetta. Al momento, si riduce a limitati interessi economici, un’estensione del mercantilismo nazionale su scala comunitaria. L’Ue confonde l’opportunismo con la strategia, ma il perseguimento della strategia richiede un’attenta definizione di cosa essa sia e la volontà di rinunciare ai guadagni di breve termine per ottenerla. L’Ue invece è ancora lontana anche solo dal guardarsi allo specchio. 

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