Cosa succede se un Paese non ratifica il Recovery Fund? La Commissione Europea non ha un piano d’emergenza

Anche se l’ipotesi è remota (Finlandia a parte), l’assenza di un Piano B può fare di questa minaccia un potente strumento negoziale

Finora la Commissione europea ha ricevuto 14 piani di rilancio, all’appello manca quasi la metà degli Stati membri. Inoltre, la decisione sulle risorse proprie – necessaria per finanziare il fondo – deve ancora essere ratificata in otto paesi. Perciò, anche se il percorso di attuazione procede, rispetto all’agenda prefissata ci sono molti vuoti da riempire. Il problema maggiore però è che non esiste nessun piano di emergenza nel caso in cui un Paese non dovesse portare a compimento la ratifica del Recovery Fund. Non si tratta di uno scenario remoto: l’ultima incognita è stata la sentenza della Corte costituzionale tedesca, ora il nuovo ostacolo è in Finlandia. 


La settimana scorsa la Commissione per gli Affari Costituzionali di Helsinki ha deciso che per la ratifica della decisione sulle risorse proprie è necessaria una maggioranza parlamentare di due terzi, obbligando il governo della premier Sanna Marin a cercare un accordo con partiti di opposizione. Cosa succede se i partiti finlandesi non trovano un compromesso? Il governo Marin l’ha chiesto al servizio giuridico del Consiglio europeo, la risposta è stata tanto semplice quanto disarmante. 


Bruxelles non ha un piano alternativo

Un alto funzionario ha detto che se un Paese non dovesse ratificare la decisione sulle risorse proprie, la struttura del Recovery Fund crollerebbe e non si potrebbe andare avanti. Il governo “colpevole” verrebbe sottoposto alle pressioni politiche degli altri Stati membri, fino a cambiare idea e diventare irrilevante a causa di un danno alla reputazione senza precedenti. La minaccia è stata rivelata dall’emittente pubblica YLE, facendo scalpore tra i media finlandesi, con il rischio di provocare ciò che si vorrebbe impedire: un rifiuto dell’opinione pubblica, e del parlamento

Ma al di là della minaccia di stigma eterno per il Paese colpevole di aver ucciso il Recovery Fund, l’Unione europea non potrebbe applicare nessuna sanzione diretta. Soprattutto, Commissione e Stati membri non hanno previsto un piano alternativo, si dovrebbe ripartire da zero. L’unica garanzia sul progetto è l’accordo raggiunto nel vertice di luglio dell’anno scorso, che come si è già visto in più occasioni, non ha impedito altri vertici con discussioni ultimative e minacce di veto.

Helsinki alla fine troverà una soluzione e ratificherà il fondo, ma il nocciolo della questione resta, e caratterizzerà le prossime fase negoziali, quelle sui programmi dei piani di rilancio. Come ormai viene detto apertamente, il Recovery Fund non è legato solo all’attuazione di progetti e investimenti conformi ai parametri della transizione digitale e ambientale. Nei piano di rilancio deve essere presente anche un programma di riforme che risponde alle raccomandazioni specifiche per paese, nello specifico quelle che la Commissione ha presentato a maggio dell’anno scorso nel consueto appuntamento del semestre europeo.  

La carota dei fondi, il bastone delle riforme, ma ci sono delle varianti

Le raccomandazioni paese identificano le lacune dei sistemi economici e amministrativi degli Stati membri, indicando le riforme necessarie per risolverli. Si tratta di riforme difficili, spesso sgradite: sistemi pensionistici, fisco, concorrenza, giustizia ecc… Per l’Italia la sfida delle riforme strutturali va in parallelo con i progetti ed è una necessità a cui non ci si può sottrarre, pena la rinuncia a fondi di cui il Paese – di gran lunga il principale beneficiario – ha un bisogno assoluto. Ma ci sono delle varianti. L’Irlanda è uno dei Paesi che potrebbero avere difficoltà nell’accesso al Recovery Fund, ma non a causa di riforme per il controllo della spesa pubblica, della concorrenza o della pubblica amministrazione. L’Irish Times racconta che la Bruxelles intende fare pressione su Dublino affinché introduca nel Recovery Plan una riforma del suo sistema fiscale, molto generoso con le multinazionali.

La minaccia (velata) come strumento per il negoziato

La Commissione ritiene la normativa irlandese funzionale alle aziende che scelgono una “pianificazione fiscale aggressiva” (un modo gentile per dire che eludono il fisco). Inoltre, a fare pressioni per la riforma sono anche Francia e Germania, che (come l’Italia) si considerano danneggiate dall’elusione fiscale delle aziende con la sede legale nell’isola. L’Irlanda però è uno dei 13 Paesi che non hanno ancora inviato il Recovery Plan e, soprattutto, non hanno ratificato la decisione sulle risorse proprie. Nelle prossime settimane, Dublino potrebbe usare la minaccia (diretta o indiretta) di affossare il Recovery Fund come arma negoziale per contrastare questa pressione su due fronti. Non è un caso isolato, anche ai Paesi Bassi viene chiesta una riforma dello stesso tipo per le stesse ragioni. Finlandia, Irlanda e Olanda sono paesi che possono fare a meno del Recovery Fund e hanno le spalle abbastanza larghe per ingaggiare un braccio di ferro con la Commissione.

Paesi con economie dipendenti dai fondi Ue l’hanno già fatto, e non è finita. Polonia e Ungheria sono ancora in prima linea contro il meccanismo che vincola l’erogazione dei fondi al rispetto dello Stato di diritto. Anche Budapest non ha ratificato la decisione sulle risorse proprie, e sospeso l’invio del suo piano dopo la fuga di notizie sul progetto di usare il Recovery Fund per finanziare delle università private gestite da imprenditori vicini al premier Viktor Orban. I meccanismi di condizionalità legati al Recovery Fund sono una lama a doppio taglio. L’agenda adesso prevede due mesi per la revisione della Commissione dei Recovery Plan, poi un altro mese per la discussione nel Consiglio. Anche se i paesi più bisognosi dei fondi vogliono accelerare i tempi, possono succedere ancora molte cose. Il tempo dei i negoziati e le minacce di veto potrebbe non essere finito.

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