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Dagli ospedali in Ruanda e in Afghanistan all’impegno contro la Covid-19, tutte le battaglie di Gino Strada

L'impegno sul campo con Emergency iniziato nel 1994, le critiche radicali alla politica delle guerre e dei respingimenti: il chirurgo di guerra se ne va dopo decenni di lotte per l'umanità

«Lasciateci riprendere». La morte improvvisa di Gino Strada, chirurgo di guerra e fondatore di Emergency, sembra impossibile da digerire. Un colpo troppo grande per chi con la sua Ong è impegnato da decenni a fronteggiare le battaglie umanitarie in tutto il mondo. Medio Oriente, Repubblica Centroafricana, Sierra Leone, Sudan, persino l’Italia devastata dal Coronavirus. E poi i programmi portati a termine in Ruanda, in Eritrea, a Jenin in Palestina, a Medea in Algeria, in Kosovo, in Angola, in Libia, in Nicaragua, in Sri Lanka e in Cambogia. Gli ospedali con il simbolo di Emergency sono dal 1994 un porto sicuro per migliaia di persone che vivono quotidianamente le distruzioni delle guerre e lo strazio della povertà. Per una triste coincidenza, Strada se ne va nei giorni più duri per l’Afghanistan, un Paese che aveva imparato a conoscere molto bene durante gli anni passati a lavorare nelle strutture che lui stesso aveva aperto. La prima nel lontano 1999, un Centro chirurgico per le vittime di guerra ad Anabah, nella Valle del Panshir. In una lettera scritta per La Stampa, datata proprio il giorno della sua morte, Strada ha scritto:

Ho vissuto in Afghanistan complessivamente 7 anni: ho visto aumentare il numero dei feriti e la violenza, mentre il Paese veniva progressivamente divorato dall’insicurezza e dalla corruzione. Dicevamo 20 anni fa che questa guerra sarebbe stata un disastro per tutti. Oggi l’esito di quell’aggressione è sotto i nostri occhi: un fallimento da ogni punto di vista.

Ora da est a ovest, da nord a sud, le città afghane ora cadono una dopo l’altra sotto i colpi dei talebani, e la popolazione è colta alla sprovvista da un’escalation fulminante destinata a precipitare in una nuova guerra civile. Già prima che le truppe interazionali iniziassero il ritiro dal Paese su indicazione prima di Donald Trump e poi di Joe Biden, il Paese soffriva di una guerra silenziosa, sottoposta a quello che Strada ha recentemente definito un «coprifuoco mediatico». «Noi siamo in guerra in Afghanistan da anni e anni», diceva in un’intervista nel 2017. «Ci sono i nostri militari armati che sparano e combattono lì. Ma nessuno ne parla più».

L’impegno in Ruanda durante il genocidio nei primi mesi di Emergency

Emergency nacque senza timidezze. Nell’agosto del 1994 Strada guidò un’equipe di medici in Ruanda, incaricata di rimettere in funzione il reparto di chirurgia all’Ospedale di Kigali, la capitale. Era l‘annus horribilis per il Paese africano, che nei 4 mesi precedenti aveva attraversato uno dei capitoli più cruenti della storia recente, il genocidio che fece oltre 800 mila vittime nel giro di 100 giorni. All’epoca per la stampa quello di Strada era solo il nome di un bravo chirurgo milanese con alle spalle una lunga esperienza con la Croce Rossa e che, insieme alla moglie Teresa e ad alcuni amici, aveva appena fondato un’organizzazione umanitaria chiamata Emergency. Gli anni precedenti (dal 1988 al 1994) li aveva passati tra l’Afghanistan, il Pakistan, la Cambogia, la Thailandia, la Bosnia, il Perù e il Corno d’Africa per conto della Cri. Dopo l’esperienza in Ruanda, che sancì l’inizio della storia di Emergency, Strada portò la sua Ong in Cambogia, dove rimase fino a quando, nel 1998, partì di nuovo per l’Afghanistan.

«Le guerre piacciono ai politici»

L’odio per la guerra lo portò molte volte a scontrarsi con la politica, quella istituzionale, alla quale Strada non ha mai risparmiato critiche. Quella politica «insensibile» e «vergognosa» che ha la gran capacità di «dire bugie ogni volta». Quei politici che «votano affinché l’Italia invada l’Afghanistan senza essere in grado di collocarlo su una cartina muta del pianeta». Nel 2015, durante la consegna del “Right Livelihood Award 2015”, Strada disse che la guerra piace solo a chi ha interessi economici, che dalle violenze resta ben distante. «Chi invece la conosce, si fa un’idea molto presto. Le guerre vengono dichiarate dai ricchi e potenti, che poi ci mandano a morire i figli dei poveri»

L’impegno per i migranti e le critiche a Salvini

Nel periodo in cui la retorica dei porti chiusi aveva impregnato i discorsi politici italiani, Strada arrivò anche allo scontro diretto con l’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini. Quando nel dicembre del 2018 la Open Arms si vide rifiutare l’approdo in Italia, il chirurgo commentò l’atteggiamento del segretario della Lega definendolo «volgare e disumano», il «solito bullismo nell’affrontare quelle che sono tragedie per altre persone». I decreti Sicurezza, che comprendevano anche multe fino a un milione per le Ong impegnate nel soccorso in mare, erano per Strada il «più recente atto di guerra contro i migranti», dopo gli accordi con la Libia stilati durante il governo Gentiloni e firmati dall’allora ministro dell’Interno Marco Minniti. Sua figlia Cecilia, raccogliendo gli insegnamenti di una vita, ha contribuito alla fondazione di ResQ, una nave che opera nel Mediterraneo. E anche oggi, nel giorno della morte del padre, Cecilia era in prima linea. Nel salutarlo pubblicamente, ha detto: «Non ero con lui ma in mezzo al mare, come mi ha insegnato».

L’arrivo in Calabria per l’emergenza sanitaria

L’ultima battaglia che ha combattuto attivamente Strada è stata quella contro il Coronavirus, continuando a chiedere la garanzia di un vaccino per tutti al di là del profitto. La sua Ong è scesa in campo anche in Italia, precisamente in Calabria, dove l’emergenza sanitaria ha richiesto l’intervento di associazioni umanitarie tanta era la mancanza di forze, risorse e strutture. Nonostante qualche rancore politico, che aveva spinto il presidente Spirlì a dire di «non aver bisogno di missionari», Strada e la sua Emergency sono andati avanti fedeli al loro impegno, iniziando a novembre 2020 una collaborazione con la Protezione Civile. E continueranno in tutto il mondo anche dopo, e durante, il dolore di questi giorni: «È morto felice», hanno detto. «Ti vogliamo bene, Gino».

Immagine di copertina: ANSA/MATTEO BAZZI

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