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Sognando l’ultima dose. Quando e come finirà l’emergenza sanitaria? Tutto quello che (non) sappiamo

14 Gennaio 2022 - 14:47 Juanne Pili
Quali potrebbero essere gli scenari futuri dal 2022 in poi, tra booster contro le varianti e pillole anti-virali in arrivo

Al momento è prematuro pensare ad un domani in cui ci sarà l’ultima dose booster di vaccino da somministrare. Anche se alcuni indizi fanno pensare che questo 2022 sia l’inizio della fine, altri ci ricordano che non è il caso si manifestare troppo ottimismo. Il nuovo Coronavirus con le sue varianti Covid continua a presentare delle sfide. E dopo la distribuzione della terza dose stiamo già affrontando il dibattito sull’opportunità o meno del secondo booster mentre attendiamo l’arrivo delle prime pillole anti-virali da somministrare ai pazienti a rischio. A che punto siamo, dunque? Ne parliamo assieme a due esperti, impegnati anche nella divulgazione corretta di informazioni riguardanti la Covid-19 e i principali strumenti a nostra disposizione per combatterla: il genetista ed esperto di genomica comparata Marco Gerdol e il PhD in Cancer Biology Aureliano Stingi.

Dalla terza alla quarta dose. Lo stiamo facendo bene?

Uno studio israeliano riporta l’aumento di cinque volte degli anticorpi con il quarto vaccino Pfizer a una settimana dall’inoculazione. Il paper non è ancora disponibile online ma è possibile far riferimento all’annuncio del governo.

Il primo ministro israeliano Naftali Bennett – leggiamo sul Washington Post -, ha affermato che i risultati preliminari indicano “un’altissima probabilità che la quarta dose protegga le persone vaccinate in larga misura dalle infezioni in una certa misura e dai sintomi gravi” […] Ma alcuni esperti, in Israele e a livello internazionale, hanno messo in dubbio la saggezza di lanciare un altro giro di vaccinazioni per coloro che sono completamente vaccinati quando un numero enorme di persone deve ancora essere vaccinato, per propria scelta o per carenza […] “È una specie di risposta giusta alla domanda sbagliata”, ha detto Levine sui risultati del nuovo studio. “Il fatto che aumenti i livelli di anticorpi è una buona notizia, ma prima dobbiamo sapere se è necessaria un’altra dose”.

I dubbi dell’epidemiologo israeliano Hagai Levine sembrano condivisi da Ema, che recentemente ha auspicato l’avvento di nuovi vaccini per fronteggiare la variante Omicron. «Israele per il momento sta dando la quarta dose ad alcune categorie più a rischio – spiega Stingi -, come i fragili e immunodepressi. Il vaccino è fondamentale perché riduce ospedalizzazioni e morti, ma non è l’arma risolutiva per il momento, prossimamente arriverà quello aggiornato di Pfizer-BioNTech contro Omicron. Ma come siamo veloci noi, è veloce anche SARS-CoV-2 a mutare».

Come se non bastasse comincia ad affacciarsi la sotto-variante Omicron BA.2, del cui impatto su trasmissibilità e virulenza sappiamo ancora molto poco. Per ora, comunque, e mentre prosegue la valutazione sulla quarta è stato importante assestarsi sulla distribuzione di tre dosi di vaccino: la terza dose – prevista generalmente per tutti i vaccini antigenici – è divenuta necessaria perché è stato osservato che, per quanto la protezione contro le forme gravi restasse alta, si manifestava un calo dell’immunità dopo quattro o cinque mesi, il che riduceva la capacità di proteggere pienamente dal rischio di contagio.

ANSA | Il premier israeliano Naftali Bennett.

Quali saranno le strategie di vaccinazione future?

Qui è centrale il modo in cui funzionano i vaccini di nuova generazione, che trasportano un frammento di mRNA codificante l’antigene del virus (la proteina Spike). SARS-CoV-2 la usa per legarsi ai recettori ACE2 delle cellule, infettandole. I vaccini fanno produrre alle cellule la Spike, perché parallelamente il Sistema immunitario deve essere stimolato a produrre in anticipo degli anticorpi, che riconoscendo l’antigene possono ridurre la probabilità del virus di infettarci – o in ultima istanza -, di provocarci forme gravi di Covid-19, soprattutto quelle fatali.

È sufficiente continuare a somministrare booster coi vaccini standard e aspettare che prima o poi tutto si risolva? «In linea di massima l’idea di migliorare la risposta immunitaria con dei booster è limitata dal fatto che non necessariamente ripristinano il titolo anticorpale delle prime dosi – continua Gerdol -, ma migliorano la qualità degli anticorpi prodotti. Si innesca un processo di affinazione, per cui riescono a estendere il range di antigeni riconosciuti. Potenzialmente potresti dare un booster sempre identico a se stesso e man mano migliorare il riconoscimento di una Spike maggiormente diversa. È evidente che il modo migliore per coprire varianti come Omicron è quello di mettere a punto un vaccino basato sulla sequenza stessa della Spike che deve essere riconosciuta». 

Ma dei vaccini aggiornati sulla Spike di Omicron potrebbero ridurre effettivamente la probabilità che varianti future possano minacciarci? «Non so quale strategia verrà pianificata. Leggendo anche i trial di Moderna – spiega Gerdol -, vediamo che sono state vagliate varie possibilità. Prima ipotesi: combinare il booster basato solo sulla Spike di Omicron con le dosi precedenti che invece sono basate sull’antigene originale. In questo modo si svilupperebbe una sorta di immunità “mista”, ovvero con uno spettro immunitario più ampio contro le varianti diffusesi fino a oggi. Seconda ipotesi: somministrare booster misti, in cui sono presenti sequenze codificanti Spike differenti, infatti Moderna stava studiando la possibilità di avere dei booster ibridi, che mescolassero assieme gli mRNA della Spike di Omicron, Delta e Beta; quindi due o tre sequenze al prezzo di una sola dose».

«Quando questi update verranno commercializzati buona parte della popolazione – almeno in Occidente -, sarà stata già vaccinata con due o tre dosi standard. Un’altra ampia fetta sarà stata già infettata in precedenza. Insomma, si tratterà quasi sempre di soggetti già immunizzati. In tutti questi i nuovi booster dovrebbero riuscire a stimolare una risposta immunitaria in grado di coprire tutte le varianti».

La ricerca di un vaccino contro tutti i Coronavirus

In un articolo dell’agosto scorso avevamo trattato di un particolare filone di ricerca riguardante la possibilità di creare dei vaccini pan-coronavirus, ovvero in grado di proteggerci contro tutti i Coronavirus. Parliamo più precisamente di una «pan-sarbecovirus vaccine strategy». Lo studio di cui ci siamo occupati faceva riferimento a delle persone precedentemente guarite dalla Sars (SARS-CoV-1) sottoposte a due dosi di vaccino a mRNA contro la Covid-19 (SARS-CoV-2); queste mostravano una immunizzazione non solo contro le varianti Covid allora note, ma potenzialmente anche – secondo quanto suggerito dai ricercatori -, contro tutti i Coronavirus vicini a SARS-CoV-2 (Sarbecovirus). Quanto siamo vicini a un traguardo del genere?

«Quello è un discorso diverso – spiega Stingi -, perché lo studiamo per andare a intercettare anche le varianti future. Nel momento in cui cominci a vedere degli elementi ricorrenti che sono comuni anche tra le varianti, tu riesci a ottenere un vaccino che ti protegge anche da quelle future. Si stanno facendo degli studi ma ancora non ci siamo arrivati». 

Shafin_Protic | Immagine di repertorio.

Paxlovid e Molnupiravir non sono pillole magiche

Israele continua a essere un laboratorio a cielo aperto. Non solo si porta avanti con la quarta dose ma lancia anche la pillola antivirale Paxlovid di Pfizer-BioNTech, utilizzando cartelle cliniche digitali per identificare le persone più a rischio. Sì, perché non si tratta certo di caramelle e l’equilibrio tra rischi e benefici va ricalibrato rispetto a quello considerato per i vaccini, che per altro non possono essere sostituiti dai trattamenti farmacologici. Paxlovid e Molnupiravir di Merck fanno parte di una nuova frontiera di farmaci. In America sono stati depositati i primi dati sull’efficacia, – inizialmente stimata all’89% -, per quanto riguarda la riduzione di ricoveri e decessi.

I primi risultati di Pfizer si basano su un campione di oltre duemila pazienti. Sono dati incoraggianti. «Sui farmaci antivirali abbiamo effettivamente Paxlovid e Molnupiravir che sembrano molto promettenti, ma va tenuto conto della difficoltà nella produzione e nei costi – continua Stingi -, parliamo di farmaci che verranno limitati a uso ospedaliero, dove si individuano i pazienti che potrebbero avere un decorso grave e glieli somministrano». 

Per Pfizer non è tardato il via libera di Ema e Fda, con autorizzazione alla somministrazione ai pazienti con maggiore rischio di decorsi gravi. Così vengono bilanciati i potenziali pericoli. Per esempio, Paxlovid è composta da nirmatrelvir e ritonavir. Quest’ultimo se interagisce con altri trattamenti causerebbe determinati eventi avversi, che risultano elencati nel foglietto illustrativo di Pfizer. «Il problema – spiega Stingi – è che quando crei una molecola in farmacologia non è mai al 100% specifica, c’è sempre il rischio che vada anche a toccare qualcos’altro di umano. Come tutti i farmaci può avere degli effetti indesiderati e degli eventi avversi. Non sono delle mentine». 

Molnupiravir è stato promosso dalla casa farmaceutica Merck assieme a Ridgeback Biotherapeutics. In attesa dell’approvazione da parte dell’Fda, negli Stati Uniti, ha ottenuto infine il via libera di Ema a Aifa a determinate condizioni. Inizialmente, secondo il comunicato dell’azienda l’interim analysis di terza ancora in corso – la MOVe-OUT -, sembrava potesse dimezzare ricoveri e decessi. Parliamo di una ricerca su 1850 pazienti considerati a rischio di sviluppare forme gravi di Covid-19.

«Merck prevede di produrre 10 milioni di cicli di trattamento entro la fine del 2021 – continuano gli autori della nota aziendale – con più dosi che dovrebbero essere prodotte nel 2022. […] Inoltre, Merck ha stipulato accordi di fornitura e acquisto per Molnupiravir con altri governi in tutto il mondo, in attesa dell’autorizzazione normativa, ed è attualmente in trattative con altri governi».

Oggi parliamo anche in questo caso di un farmaco destinato soprattutto agli anziani con patologie pregresse, con risultati di efficacia piuttosto modesti rispetto alle aspettative iniziali. In generale si è visto che l’efficacia è del 30% in adulti a rischio, con Covid da lieve a moderato. «Molnupiravir è meno efficace di quanto si pensava – continua Stingi -, invece su Paxlovid confermano un’alta efficacia, però parliamo di numeri troppo piccoli. Dobbiamo sempre distinguere tra efficacia assoluta e relativa. Negli studi troviamo necessariamente gruppi di persone molto piccoli, perché questa malattia non fa tanti morti in relazione al numero di positivi. Quindi l’efficacia relativa potrebbe risultare sempre bassa».

Entrambi i farmaci devono essere assunti fin dai primi sintomi, perché quello è il momento in cui il virus si moltiplica in un organismo privo di difese specifiche.: « Non è sempre facile capire chi andrà in terapia intensiva e chi no – spiega Stingi – il farmaco va dato abbastanza presto, perché devi bloccare il virus quando comincia a replicarsi; anche capire quando somministrarlo non è affatto banale, ed esercita tutta la sua efficacia nei pazienti a rischio di forme gravi. Darlo a chiunque si ammali non avrebbe alcun effetto». 

EPA/PFIZER INC. HANDOUT | Secondo gli ultimi dati, Paxlovid manterrebbe l’efficacia del 90% anche contro la variante Omicron.

Il problema dei Paesi che stiamo lasciando indietro

Sembra proprio che ci sia una sorta di rassegnazione al fatto che continueranno comunque ad emergere nuove varianti e sotto-varianti preoccupanti o di interesse (le cosiddette Voc e Voi). Il punto resta sempre il fatto che in molte regioni del mondo non arrivano nemmeno le prime dosi standard. Se teniamo conto del fatto che tutte le varianti Covid sono emerse in Paesi dove non si vaccinava o lo si faceva molto poco, è facile capire che quello del rendere accessibili i vaccini in tutto il mondo dovrebbe essere un punto fondamentale per uscire dall’emergenza sanitaria.

«In linea teorica dovrebbe andare così: tutti immunizzati, con dosi booster periodiche ai più fragili – spiega Stingi -, il problema restano sempre le varianti, perché finché ci preoccupiamo di avere i vaccini solo noi fregandocene dei Paesi che non riescono a vaccinare la popolazione, continueranno a sfornarne di nuove. Il problema andrebbe affrontato anche da questo punto di vista».

«Stiamo parlando già di quarte dosi in Europa – continua Gerdol -, quando metà del Pianeta non ha avuto ancora accesso alla prima. Basta vedere il Sudafrica che non è certamente uno dei Paesi più poveri: ha dovuto affrontare una ondata di Omicron con il 25% della popolazione vaccinata e dopo aver subito una ondata di Delta molto pesante, che noi in Occidente abbiamo tenuto sotto controllo proprio grazie alle vaccinazioni. Come abbiamo sempre detto, maggiore è la circolazione virale più alta sarà la probabilità che emergano nuove varianti. Anche l’evento che ha portato alla nascita di Omicron è stato strano e inatteso, però è avvenuto, proprio perché questo virus ha avuto la possibilità di diffondersi tantissimo e raggiungere pazienti immunocompromessi, oppure un nuovo serbatoio animale, dove questa variante è stata poi selezionata».

EPA/KIM LUDBROOK | Persone con la mascherina in attesa fuori da un centro per il programma alimentare a Johannesburg, in Sudafrica.

Foto di copertina: Jordan_Singh | Immagine di repertorio.

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