Benjamin Netanyahu

Benjamin NetanyahuAnsa | Il premier israeliano Benjamin Netanyahu

Chi è Benjamin Netanyahu?

Benjamin Netanyahu è il primo ministro più longevo della storia d’Israele. Alla guida del Paese dal dicembre 2022, lo è già stato dal giugno 1996 al luglio 1999 e poi di nuovo ininterrottamente dal marzo del 2009 al giugno 2021. Ha guidato dunque nel complesso il Paese sinora per circa 16 anni. Guida il Likud, il partito principale della destra israeliana, dal 1993. Netanyahu salì al potere per la prima volta pochi anni dopo, nel 1996, dopo l’assassinio del primo ministro laburista Ytzhak Rabin nel novembre 1995 da parte di un estremista dell’ultradestra israeliana. Netanyahu si oppose fermamente al processo di pace che Rabin aveva aperto con l’Anp di Yasser Arafat dopo gli Accordi di Oslo: il suo successo elettorale sancì la sconfitta di quella prospettiva, e i lunghi anni della sua premiership hanno al contempo riflesso e rafforzato il progressivo spostamento a destra della società israeliana.

L’influenza della storia famigliare

Benjamin Netanyahu è nato a Tel Aviv il 21 ottobre 1949. La madre, Tzila Segal, è una sabra, nata a Petah Tikva quando la regione era ancora parte dell’Impero Ottomano (1912). Il padre, Benzion Netanyahu – nato a Varsavia col cognome originario “Mileikowsky” – è stato un noto storico specializzato sull’epoca della cosiddetta “Età dell’Oro” degli ebrei di Spagna e sull’Inquisizione antiebraica del Regno. Secondo di tre figli, Netanyahu trascorse gli anni dell’infanzia a Gerusalemme, poi seguì la famiglia che si trasferì negli Usa per ragioni di lavoro del padre. Dopo essere rientrato in patria per servire nell’esercito, poi di nuovo per combattere nella Guerra del Kippur (1973) Benjamin torna negli Usa dove si laurea in architettura all’Mit di Boston nel 1975. Consegue in parallelo anche un master a Harvard. Inizia la sua carriera negli Usa, come consulente per il Boston Consultino Group, ma dal 1978 torna in Israele. Due anni prima, nel 1976, suo fratello maggiore Yonathan è morto dopo aver guidato un’eroica operazione delle forze speciali in cui vengono liberati a Entebbe, in Uganda, 100 passeggeri presi in ostaggio da terroristi palestinesi. Le figure del fratello maggiore e del padre e le battaglie da loro condotte – sul terreno accademico e militare – saranno cruciali nella formazione del pensiero politico di Netanyahu. Nei primi anni da professionista in Israele, guida un centro studi sul terrorismo dedicato alla memoria del fratello. Dopo un’altra esperienza nel settore privato, nel 1982 Netanyahu torna negli Usa, nominato dal ministro degli Esteri vicecapo missione all’Ambasciata di Washington. Due anni dopo è nominato Ambasciatore d’Israele presso le Nazioni Unite. Negli anni americani affina le sue doti di public speaker per la causa della difesa di Israele e le sue visioni sull’impossibilità di un dialogo di pace con la controparte palestinese, accusata di non volere altro se non la distruzione dello Stato ebraico.

L’ingresso in politica e l’arrivo al governo

Nel 1988 Netanyahu torna in Israele, si iscrive al Likud e viene candidato alle successive elezioni politiche: fa il suo ingresso alla Knesset, ed è nominato viceministro degli Esteri. La sua notorietà cresce nel Paese e nel mondo durante la Guerra del Golfo, nel 1991, quando Netanyahu è la voce principale di Israele sui media internazionali. Dopo la sconfitta elettorale del 1992, Netanyahu si candida nella corsa interna per la guida del Likud, che vince. Guida dal fronte della destra l’opposizione al governo di Ytzchak Rabin negli anni cruciali degli Accordi di Oslo spinti dall’Amministrazione Usa di Bill Clinton. Il clima nel Paese attorno alla prospettiva di un accordo di pace con l’Olp di Arafat si fa incandescente, e il 4 novembre 1995 il premier laburista viene colpito nel corso di un affollato comizio in piazza a Tel Aviv. Rabin muore, il Paese è sconvolto e precipita verso nuove elezioni. Le vince a maggio 1996, anche a seguito di una serie di attacchi terroristici palestinesi, Benjamin Netanyahu, alla guida di una coalizione allargata ai partiti ultraortodossi. Oltre a raffreddare ogni prospettiva di dialogo con i palestinesi, il governo di Netanyahu si distingue per un approccio liberista in economia, vendendo partecipazioni statali in banche e grandi aziende. Dopo una crisi interna alla sua coalizione, il governo però cade nel 1999 e Netanyahu perde le successive elezioni contro i laburisti di Ehud Barak.

Leader dell’opposizione

Negli anni 2000 Netanyahu resta un personaggio centrale della politica israeliana, ma lontano dal posto di comando politico. Nel 2002, con la destra ritornata al governo sotto la guida del suo avversario interno Ariel Sharon, è nominato ministro degli Esteri. L’anno successivo passa alla guida del ministero delle Finanze. Nel 2005 il ritiro unilaterale dalla Striscia di Gaza, all’epoca ancora occupata da Israele, spacca il Paese e la destra stessa, e Netanyahu è tra i ministri che rassegnano le dimissioni in dissenso con il piano deciso e fatto eseguire da Sharon. Il governo cadrà pochi mesi più tardi, Sharon uscirà dalla vita pubblica, e a dicembre 2005 Netanyahu si ricandida e riottiene la guida del Likud. Tra il 2006 e il 2009 guida l’opposizione da destra al governo centrista guidato da Ehud Olmert. È il prodromo del ritorno di Netanyahu al governo, e questa volta per lungo tempo. Sebbene il Likud arrivi secondo dietro Kadima alle elezioni di febbraio 2009, Netanyahu riesce a raccogliere attorno a sé un numero di voti sufficienti ad assicurargli la maggioranza, e torna alla guida del Paese.

Gli scontri con Obama e la guerra con Hamas

Due sono le principali direttrici che Netanyahu imprime all’azione di governo. Da un lato l’approccio chiaramente liberista in economia: privatizzazioni, tagli fiscali da un lato e al welfare state dall’altro. Scelte nette che provocheranno a partire dal 2011 la lunga “protesta delle tende” di centinaia di giovani e non solo a Tel Aviv e in altre città del Paese contro il carovita e la riduzione dei servizi pubblici. Dall’altra Netanyahu giuda un progressivo spostamento sulla questione israelo-palestinese lontano dalla soluzione “due popoli due Stati”. I palestinesi, è il cuore della teoria del Likud di Netayahu che si consolida nel Paese, non sono un partner con cui sia realisticamente possibile costruire un futuro di pace e convivenza, perché vogliono al fondo la distruzione dello Stato ebraico. Come dimostra nel modo più “completo” Hamas, il partito-milizia più radicale del fronte palestinese che ha nel frattempo preso il controllo della Striscia di Gaza, facendone via via un avamposto militare da cui attaccare Israele. I governi di Netanyahu sostengono anche per questo i progetti di espansione edilizia degli insediamenti israeliani in Cisgiordania, ben oltre la Linea Verde. Lo scontro con l’Amministrazione Usa negli anni in cui alla Casa Bianca c’è Barack Obama emerge progressivamente per diventare su queste basi totale. Sino a convincere di fatto il leader Democratico a riporre nel cassetto gli ambiziosi progetti di rilancio del progetto di pace tra i due popoli in guerra. A contribuire al cambio di agenda è anche, nell’estate 2014, la guerra che contrappone Israele ad Hamas: a seguito del rapimento e uccisione di tre adolescenti israeliani da parte di miliziani di Hamas in Cisgiordania, Israele compie retate tra i paramilitari, che rispondono lanciando da Gaza una selva di razzi. La risposta del governo-Netanyahu è durissima, con una campagna di bombardamenti sulla Striscia per colpire infrastrutture e dirigenti di Hamas che lascerà sul terreno nell’arco di una manciata di settimane oltre 2mila vittime tra i palestinesi.

Il feeling con Trump e l’incoronazione a «Re Bibi»

Ben altro è il feeling con Donald Trump, il presidente Usa outsider della politica che si professa da subito vicino alle posizioni di Netanyahu: ultrà pro-Israele, del tutto disinteressato al destino del popolo palestinese. Sotto la sua presidenza, nel 2017 gli Usa riconoscono Gerusalemme come capitale di Israele e vi spostano l’Ambasciata: un successo diplomatico colossale per Netanyahu, che alla guida di un governo ora a trazione chiaramente di destra vede crescere la sua leadership interna e internazionale. Dopo dieci anni consecutivi alla guida dell’esecutivo, nel 2019 Netanyahu è per gli israeliani e non solo King Bibi (Re Bibi), come titola in copertina l’Economist. Sul piano internazionale gli sforzi del premier israeliano, di concerto con la Casa Bianca, si concentrano soprattutto sulla strategia di contenimento dell’Iran, considerato da sempre la maggiore minaccia regionale per Israele, e in parallelo sul progressivo disgelo con una serie di Paesi del mondo arabo che non hanno più ragione di osteggiare lo Stato ebraico, anzi. I risultati di questi sforzi vengono capitalizzati nel 2020: sul primo fronte, ai primissimi di gennaio, con l’eliminazione tramite un attacco mirato degli Usa a Baghdad di Qassem Soleimani, capo delle Forze Quds del regime di Teheran e arcinemico di Israele. Sul secondo – dopo la formazione dell’ennesimo governo-Netanyahu, questa volta in formato “grande coalizione” con il centrosinistra di Benny Gantz – con la firma nell’agosto 2020 dei cosiddetti Accordi di Abramo, che segnano il reciproco riconoscimento e la “normalizzazione” dei rapporti tra Israele ed Emirati Arabi Uniti e con il Bahrein. Nei mesi successivi si aggiungeranno quelli con Sudan, Marocco e Oman. Sino al possibile storico accordo di riconciliazione con l’Arabia Saudita, considerato alle porte nei giorni prima della clamorosa incursione in Israele di Hamas.

Scandali, inchieste e ritorno al potere

Pur avendo gestito con successo la fase più acuta della pandemia da Covid-19 (Israele è il primo Paese a ottenere i vaccini e a condurre una campagna di inoculazione nella popolazione su vasta scala), Netanyahu deve far fronte sul piano interno a proteste crescenti contro di lui per le numerose inchieste giudiziarie che lo vedono coinvolto per corruzione, frode e abuso di fiducia. Le accuse sono quelle di aver ricevuto illecitamente doni (tra cui sigari e champagne) da influenti imprenditori, e di aver tramato per ottenere una copertura più favorevole da un lato sul quotidiano principale del Paese, Yedioth Ahronoth, e dall’altro su uno dei media online più diffusi, Walla, in cambio di favori sul piano legislativo/normativo. Dopo una nuova guerra-lampo contro Hamas nella Striscia di Gaza, a maggio 2021, due dei suoi più giovani contendenti politici, Yair Lapid e Naftali Bennett, tramutano il dissenso popolare in un inedito accordo, fanno fuori politicamente Netanyahu e danno vita a un governo di coalizione alternativo. Netanyahu dimostra però di avere ancora una volta mille vite e ritorna al potere dopo le elezioni di dicembre 2022 seguite alla caduta del governo Lapid-Bennett.

La riforma giudiziaria, lo sfarinamento del Paese, l’attacco senza precedenti di Hamas

Quello che si trova a guidare è il governo più a destra della storia di Israele, inclusi per la prima volta partiti vissuti per anni sull’orlo dell’illegalità per i propositi razzisti contro arabi e palestinesi. La linea d’azione su insediamenti e rigetto di ogni possibile dialogo con i palestinesi è ancor più radicale, ma a scuotere il Paese è soprattutto la riforma della giustizia tesa a portare sotto maggior controllo governativo i poteri di magistratura e Corte Suprema. Per tutto il 2023 il Paese è scosso da manifestazioni sempre più gremite contro la riforma, accusata dall’opposizione di minare alla basi la democrazia del Paese. A seguito di uno sciopero generale che blocca il Paese – dagli ospedali alle grandi aziende, dalle strade agli aeroporti – a fine marzo Netanyahu accetta infine di «congelare» per alcuni mesi la riforma. È solo un rinvio, come si capirà nell’estate seguente. La pressione dal lato destro della sua coalizione è fortissima perché il progetto proceda, e alla fine di luglio la Knesset passa il primo mattone della riforma voluta dal governo. La tensione nel Paese è altissima, e la protesta arriva a coinvolgere persino esponenti dell’Esercito e dell’intelligence. Israele è indebolito, spaccato in due. In molti avvertono che i nemici dello Stato ebraico potrebbero prendere nota di quanto accade e tentare di approfittarne. Il 7 ottobre 2023, con l’incursione da Sud di Hamas, Israele è sconvolto dal più grave attacco portato dentro al territorio del suo Paese dal 1948. L’ultima, drammatica sfida per King Bibi.

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