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C’è un’altra nave nel Mediterraneo: Ocean Viking da 12 giorni in mare con 365 persone a bordo – Il video

21 Agosto 2019 - 14:41 Angela Gennaro
«Abbiamo bisogno al più presto di un porto sicuro», ripetono Sos Mediterranee e Msf. Ma il porto non arriva

Mentre l’equipaggio della Open Arms può immortalare in una foto l’aver finalmente toccato terra dopo 20 giorni in mare in attesa di un porto sicuro – gli ultimi davanti a Lampedusa, senza autorizzazione allo sbarco – e mentre le ultime 83 persone salvate dalla nave umanitaria si trovano ora nell’hotspot dell’isola, al limitare delle acque territoriali italiane c’è ancora, da 12 giorni, un’altra nave: la Ocean Viking delle ong Sos Mediterranèe e Medici senza Frontiere.

La Commissione europea «è pronta a iniziare il coordinamento per il ricollocamento dei migranti a bordo della Open Arms» fatti sbarcare in Italia, spiega la portavoce dell’esecutivo comunitario Natasha Bertaud, ricordando la disponibilità ad accogliere già espressa da Francia, Germania, Lussemburgo, Portogallo, e Romania. «Speriamo che questo spirito di solidarietà sia dimostrato anche per i migranti a bordo dell’Ocean Viking».

Standing by

Grande il doppio di Open Arms, la Ocean Viking – partita il 4 agosto scorso da Marsiglia – è in mezzo al mare, al momento in acque internazionali tra le Sar zone di Malta e Italia – con il triplo delle persone a bordo. Trecentocinquantasei, salvate in quattro differenti operazioni nel Mediterraneo centrale, dal 9 al 12 agosto: 103 sono bambini o minori sotto i 18 anni, in maggior parte – 92 – non accompagnati. Sono tre i bambini con meno di cinque anni.

Ancora ieri, la nave ha inviato una mail ai due centri di coordinamento, italiano e maltese, mettendo in copia quello libico ma anche EUNAVFOR Med, per informare le autorità di una imminente richiesta di evacuazione medica in futuro.

«Abbiamo bisogno al più presto di un porto sicuro», ripetono le due associazioni. Ma il porto non arriva. Due volte Malta glielo ha rifiutato, mentre l’Italia, dicono da Sos Mediterranèe, non ha mai risposto.

Ad assegnare un porto di sbarco alla nave era stato invece nei giorni scorsi il centro di coordnamento libico. Ma Tripoli non è un porto sicuro ai sensi del diritto internazionale, e la Ocean Viking ha comunicato al JRCC che «non può procedere allo sbarco in un porto libico».

Qualsiasi porto, tranne la Libia

«Qui la vita è in pausa», racconta il capomissione di Sos Mediterranèe a bordo, Nick Romaniuk, in un’intervista a Repubblica oggi. «Ma quanto ancora potremo rimanere così. La situazione è ancora sotto controllo, ma non potremo resistere all’infinito».

È, per Romaniuk, che non è alla sua prima missione su una nave umanitaria, «del tutto inaudito e inaccettabile che in Europa nessuno dia risposte, che nessuno coordini nulla, che nessuno si faccia carico delle sue responsabilità. Siamo disponibili a portare le persone soccorse in qualsiasi porto ci indicheranno, tranne che in Libia», aggiunge il capo dei soccorsi. «I Paesi europei non stanno rispettando le convenzioni internazionali da loro sottoscritte che li obbligano al soccorso».

Ferite di guerra ed emergenza psicologica

La situazione a bordo comincia ad essere tesa, spiegano a Open da Sos Mediterranèe. «Perché non ci muoviamo? Torneremo in Libia?», sono le domande delle persone soccorse.

«Sappiamo che l’attesa di poter scendere sulla terraferma potrebbe durare ancora», racconta Luca Pigozzi, medico a bordo della Ocean Viking, in una testimonianza diffusa da Msf.

«Mi sembra ieri quando ho visto le persone salire a bordo della Ocean Viking, completamente esauste», dice Pigozzi. Prima di essere soccorse, le persone trascorrono «molte ore in mare su imbarcazioni del tutto precarie, senza dormire, senza acqua né cibo. Sono disidratate, deboli, soffrono di vertigini, ipotermia, ustioni causate dal carburante o dal sole».

Quando salgono sul rhib di soccorso, che li porterà a bordo della nave, alcuni di loro hanno lo sguardo nel vuoto. Il viso ricoperto di sale. Nessuna forza nelle mani per reggersi al gommone.

E dopo le prime 24 ore, continua il medico, «iniziano a riprendersi da questi sintomi iniziali. Oggi il nostro lavoro nella clinica di bordo si concentra sulle infezioni cutanee o delle vie respiratorie, le condizioni più comuni. Ma curiamo anche feriti di guerra – persone di nazionalità libica con schegge di granate a livello sottocutaneo – o adulti con patologie croniche come il diabete. Stiamo cercando di mantenere stabili le loro condizioni. A oggi abbiamo effettuato 130 visite mediche e 63 medicazioni di ferite. Facciamo del nostro meglio, ma siamo consapevoli che alcuni pazienti sarebbero curati meglio a terra».

La maggior parte dei minori a bordo «non ha mai vissuto in un luogo sicuro, non sa cosa voglia dire giocare senza correre alcun rischio».

L’emergenza a bordo più importante adesso è quella psicologica, prosegue Pigozzi. «Queste persone hanno subito e stanno subendo traumi importanti. In molti hanno subito torture o violenze sessuali in Libia. Oggi l’attesa dello sbarco, consumata in uno spazio confinato in mezzo al mare, non può che peggiorare le loro condizioni».

Il 13 agosto «abbiamo richiesto a Italia e Malta di prendere il coordinamento e assegnare un porto sicuro di sbarco», ricostruiscono da Msf. Malta ha rifiutato di prendere il coordinamento, l’Italia non ha risposto. «Stiamo interessando anche gli altri stati europei nel tentativo di trovare una soluzione tempestiva che garantisca lo sbarco in un porto sicuro per tutte le persone soccorse».

Video/Sos Mediterranèe – Foto/Medici Senza Frontiere

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