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«Vietato l’ingresso a chi viene dalla Cina»: cosa prevede la legge sui cartelli esposti per il coronavirus

01 Febbraio 2020 - 07:22 Felice Florio
C'è una norma che nasce nel 1931 e che riguarda tutti i pubblici esercizi, bar e ristoranti

In Italia è stato dichiarato lo stato di emergenza per il Coronavirus: due turisti cinesi – atterrati a Malpensa il 23 gennaio, passati sicuramente da Parma e che hanno alloggiato al hotel Palatino di Roma – sono risultati positivi all’infezione da 2019-nCov. La psicosi dilaga ormai in tutto il Paese. Da Milano, dove il quartiere di Chinatown è praticamente deserto, ad alcuni bar della Capitale che hanno iniziato ad affiggere cartelli con su scritto: «Vietato l’ingresso a chi viene dalla Cina».

Nonostante le rassicurazioni di tutti gli esperti, la paura, spesso, provoca comportamenti irrazionali: il rischio è arrivare a una stigmatizzazione di qualsiasi persona che presenti caratteri somatici orientali. A Roma, qualche ora dopo l’affissione dei cartelli per vietare l’ingresso a chi provenisse dal Paese asiatico, sono intervenuti i vigili per far rimuovere i fogli attaccati alle finestre di alcuni bar.

Nadia Esposito, dipendente di una delle strutture coinvolte, ha motivato così la scelta di affiggere quel messaggio: «Non è discriminatorio per la gente di nazionalità cinese. Noi abbiamo invitato tutti coloro che arrivano dalla Cina a non entrare – fossero anche italiani o americani -. Il punto è che non sappiamo se stanno incubando il virus o meno, per cui prendiamo precauzioni». Ma davvero in un Paese democratico come l’Italia un esercente può prendere autonomamente questo tipo di iniziative? Assolutamente no, ecco perché.

Autorità di pubblica sicurezza

Prima di tutto è bene far chiarezza su chi ha competenze in materia di ordine pubblico e pubblica sicurezza. Che, tradotto, vuol dire garantire le condizioni di pace sociale attraverso attività di prevenzione dei fattori che la minacciano e risolvendo tutte le questioni che già la stanno turbando. A livello nazionale, la massima autorità la esercita il ministero dell’Interno. A livello locale, sono esercitate dal prefetto e dal questore.

Cos’è un pubblico esercizio

Qualsiasi impresa aperta al pubblico e che, come principale attività, presta un servizio alle persone, è definita pubblico esercizio. Per la sua apertura e il suo funzionamento, l’ordinamento giuridico italiano fa riferimento al Tulps, il Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, approvato con regio decreto il 18 giugno del 1931. Ed è al Tulps che bisogna fare riferimento per capire se un barista o un ristoratore – che sono pubblici esercizi perché la principale attività e somministrare cibo e bevande ad altre persone – possono rifiutare determinati clienti.

Può un bar o un ristorante non accettare alcuni clienti?

L’articolo 187 del Regolamento per l’esecuzione del Tulps stabilisce che «salvo quanto dispongono gli artt. 689 e 691 del codice penale – che puniscono gli esercenti che vendono alcolici ai minori o ai clienti in stato di evidente ubriachezza -, gli esercenti non possono senza un legittimo motivo, rifiutare le prestazioni del proprio esercizio a chiunque le domandi e ne corrisponda il prezzo». Se volessi comprare una Coca Cola in un bar e accettassi di corrispondere la cifra che l’esercente ha stabilito per quella bevanda, nessuno può negarmi quel diritto. Anzi, il titolare rischierebbe una sanzione che va da 516 a 3.098 euro.

Ma, e c’è un ma, la legge prevede dei «legittimi motivi» per i quali il gestore di un bar o di un ristorante ha facoltà di non accettare un cliente. Si tratta però di motivi che hanno a che fare con la quiete degli altri e con la sicurezza. Se per esempio una persona è in evidente stato di agitazione, il gestore dell’esercizio ha il dovere di «adottare i vari mezzi offerti dall’ordinamento per evitare che la frequentazione del locale da parte degli utenti sfoci in condotte contrastanti con le norme poste a tutela dell’ordine e della tranquillità pubblica». Lo dice la Cassazione.

È intuitivo, però, che i «legittimi motivi» devono riguardare il singolo individuo e non un’intera categoria di persone. Altrimenti il rischio è di discriminare qualcuno, mossi semplicemente dalla paura: è già successo in passato per determinate comunità o persone. Ed è altrettanto intuitivo che la provenienza geografica di qualcuno non è «una condotta», riprendendo la sentenza della Cassazione, che può minacciare l’ordine e la tranquillità pubblica. Anche perché per stabilire misure di questo tipo, è bene ribadirlo, ci sono le autorità competenti.

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