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Coronavirus, sul sito delle Nazioni Unite la storia di un’infermiera italiana: «Il nostro destino dipende dalle protezioni che indossiamo»

08 Aprile 2020 - 17:13 Giulia Marchina
«Quello che mi spinge ad andare avanti è che voglio sentire i pazienti che tornano a casa dire "io sono sopravvissuto al Covid-19"», dice Laura Lupi

Il portale delle Nazioni Unite apre con una storia tutta italiana, quella di Laura Lupi, infermiera di 24 anni, in servizio nel reparto dedicato ai malati di Coronavirus dell’ospedale di Teramo. La ragazza affida il racconto all’Ufficio regionale dell’Organizzazione mondiale della sanità per l’Europa: una testimonianza, simile a quella di tanti altri operatori sanitari, che vuole essere un omaggio a chi opera tra le corsie degli ospedali di tutta Italia. La fatica e il dolore di una giornata di lavoro cominciano allo scoccare del nuovo turno di lavoro, quando Laura deve vestirsi per entrare in reparto: «Il modo in cui indossiamo i nostri indumenti protettivi all’inizio di ogni turno decreta il nostro destino», dice.

«Quei primi venti minuti necessari per indossare la tuta protettiva sono fondamentali per evitare l’infezione. Mi è capitato di avere a che fare con le malattie infettive prima d’ora, ma questo virus è diverso perché non ne sappiamo abbastanza, racconta. «Quello che mi spinge ad andare avanti è che voglio sentire i pazienti che tornano a casa dire “io sono sopravvissuto al Covid-19″». Laura è diventata infermiera dopo la laurea un anno fa. Un titolo di studio che l’ha prima catapultata nei reparti di medicina generale e geriatria e, dopo, l’ha trascinata tra i malati Covid.

«Niente avrebbe potuto prepararmi per le sfide professionali ed emotive che sto affrontando adesso», confessa. Durante il primo giorno di lavoro in quel reparto, «sono entrata in una stanza e un paziente stava piangendo. Quando gli ho chiesto cosa fosse successo mi ha risposto che sua suocera era morta e lui non poteva consolare sua moglie. Tutto quello che ho potuto fare per alleviare la sua pena è stato mettere una mano sul suo petto, ma lui non riusciva nemmeno a vedere il mio viso».

Il turno finisce e la ragazza, ogni giorno di ritorno dall’ospedale, sulla strada di casa, fa i conti con quanto vissuto durante la giornata e che, inevitabilmente, condizionerà la sua vita tra le mura di casa: «Anche il ritorno a casa dopo una lunga giornata di lavoro è difficile. Vivo con i miei genitori e con mio fratello, ma per paura di infettarli non posso condividere con loro neanche la cena». Infine, un appello: «La sola cosa che vi chiediamo è di rimanere a casa per noi. Noi saremo al lavoro per voi».

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