Coronavirus, studiare le acque reflue può aiutare a capire il reale numero dei contagi

Dallo studio delle acque di scarico una possibile soluzione per stimare l’entità della pandemia

Non è facile definire la reale portata della pandemia di Coronavirus basandoci solo sul rapporto tra contagi, asintomatici e vittime, semplicemente perché questi valori sono limitati. È impossibile tracciare con sicurezza chi è positivo, ma non mostra sintomi evidenti. Tuttavia, come succede spesso nella scienza, è possibile svolgere le ricerche in maniera trasversale. Lo abbiamo visto nella Teoria dell’evoluzione o nello studio dei cambiamenti climiatici.


Percorsi diversi possono portare agli stessi risultati, o a scoperte per serendipità (come quando Colombo scoprì l’America senza rendersene conto). Così su Nature un articolo di Smriti Mallapaty – rimasto in sordina da un paio di settimane – segnala un metodo già noto per capire l’entità del Covid-19, basato sull’analisi delle acque reflue, quelle di scarico. Non sappiamo se sarà la soluzione definitiva, ma potrebbe fare la differenza nel prevenire un ritorno della pandemia.


Acque reflue come termometro del contagio?

Secondo Mallapaty, sono più di una dozzina i team di ricerca nel mondo impegnati nello studio delle acque reflue, per stimare il numero di infezioni in una determinata comunità. Già l’Oms pubblicava nel marzo scorso un report, dove illustrava la possibile persistenza del virus nelle acque. Tanto per non creare panico ingiustificato: nel documento si specifica che «non ci sono prove che il virus del Covid-19 sia stato trasmesso tramite sistemi fognari con o senza il trattamento delle acque reflue».

Questo però non significa che non ne rimanga traccia. Su questo esistono diversi studi da anni. Infatti, «l’analisi delle acque reflue che passano attraverso il sistema di drenaggio verso una struttura di trattamento – spiega Mallapaty –  è un modo in cui i ricercatori possono rintracciare le malattie infettive [attraverso appunto le tracce di virus] nelle urine o nelle feci, come per Sars-Cov-2». È anche in questo modo che stiamo cercando di capire quando finisce la convalescenza di un paziente, escludendo che possa avere ancora traccia del virus. 

Ma un conto è analizzare urine e feci dei singoli pazienti, un altro passare all’analisi degli impianti di trattamento delle acque reflue, i quali possono riguardare anche oltre un milione di persone. Questo significa poter compiere stime su vasta scala, con una precisione potenzialmente maggiore. Primi studi stanno avvenendo in Olanda, Stati Uniti e Svezia, dove le autorità sanitarie sono consapevoli di possedere, al momento, cifre che rappresentano appena la punta dell’iceberg.

Limiti di questo genere di stime

Se questo genere di ricerche esistevano già, perché non le abbiamo fatte subito anche per SARS-CoV2? Qui scopriamo i limiti di questo tipo di misurazioni. Per esempio, non conosciamo con esattezza quanto Rna virale può rimanere nelle urine o nelle feci dei pazienti. Questo è importante, perché ci dà le coordinate per capire come campionare le acque, e stimare il numero di infetti equivalente. Insomma, come per tutte le ricerche di questo tipo, occorre stabilire un campione rappresentativo.

Anche oggi non possiamo interpretare con precisione i dati su ricoveri e vittime, non sapendo quanto sono rappresentative le cifre a disposizione, anche se siamo in grado di fare un calcolo della fatalità piuttosto plausibile, per fasce d’età. Altri problemi li abbiamo da un punto di vista tecnico e di effettive risorse in campo: da un lato occorre concentrare gli sforzi sulle diagnosi dei singoli pazienti; dall’altro bisogna coordinare la sorveglianza delle acque reflue; infine, non tutti hanno reagenti a sufficienza per condurre i test.

Per non trovarsi impreparati alla seconda ondata

Del resto non c’è fretta. Nel senso che si potrebbe adottare questo genere di sorveglianza nella fase successiva, quando le misure di distanziamento sociale produrranno l’arresto dell’epidemia, senza però scongiurare del tutto una seconda ondata. A quel punto il monitoraggio delle acque reflue potrebbe fare la differenza, mettendoci tempestivamente in allarme.

«I ricercatori hanno in programma ora di estendere il campionamento ai capoluoghi di tutte le 12 province dei Paesi Bassi – continua Mallapaty – e ad altri 12 siti che non hanno avuto casi confermati». Identificare in anticipo il ritorno di un focolaio d’infezione in una comunità, limiterebbe i danni che abbiamo già tristemente sperimentato, non solo alla salute, ma anche all’economia, ragione per cui è fondamentale che si investa su questo genere di ricerche.

Foto di copertina: Wikimedia Commons | Taskila Wastewater Treatment Plant in Oulu.

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