Feti seppelliti senza consenso della donna: il ruolo delle associazioni pro-life e la giungla delle leggi

Di quale “beneficenza” parla il comune al telefono con Marta dopo aver scoperto la sepoltura del figlio? Ecco come funzionano le norme che hanno portato al suo caso. Ora, però, le associazioni e una parte della politica vogliono muoversi

Nell’ennesima giungla di leggi e in un assurdo scaricabarile di repertorio, si inquadra l’ultima triste storia di un dolore calpestato. È quella di Marta, la donna che ha raccontato di aver trovato il suo feto sepolto nel cimitero Flaminio di Roma col proprio nome sulla croce, senza saperne niente. Un trattamento identico anche per le altre decine di donne coinvolte che, dopo lo sfogo di Marta sui social, hanno deciso di controllare. Le targhette sulle croci bianche dei loro feti riportavano a chiare lettere anche le loro generalità.


Un marchio fatto di un nome e di un cognome, dati personali che inchiodano “la responsabile” della scelta proprio lì, su quelle piccole croci sbilenche e di cui le donne erano completamente all’oscuro. « È come se avessero seppellito me», dice una di loro, «una punizione per identificare la colpevole del reato». Le denunce delle donne, completamente ignare del fatto, hanno seguito la scoperta iniziale di Marta, creando non poche polemiche. E ora, a voler far luce su questa storia di diritti ignorati, è anche il Garante della privacy.


Ma su cosa potrà intervenire e a chi può essere attribuita una violazione di diritti simile? Nel caso di Marta e delle altre donne del cimitero romano, Ospedale e Ama continuano a scaricarsi a vicenda funzioni e competenze. Un classico d’altronde, se non fosse per un argomento così altamente delicato, caduto nella trascuratezza di una normativa lasciata alla discrezionalità dei territori.

Capire la normativa

La sepoltura dei feti o dei prodotti del concepimento è consentita in Italia fin dal 1990 ed è normata dall’articolo 7 del decreto del presidente della Repubblica. Ma con quali norme e quali criteri? Per capire quello che viene esattamente stabilito dalla normativa nazionale bisogna far riferimento al regolamento della Polizia mortuaria. Il decreto fa tre distinzioni in base all’età gestazionale: nati morti, prodotti abortivi/feti e prodotti del concepimento.

Per i primi e i secondi si stabilisce l’obbligo di sepoltura, per i terzi si dice che la sepoltura è facoltativa e avviene su richiesta. Dunque se un bambino nasce morto dopo la 28esima settimana dovrà essere registrato presso l’anagrafe e, solo successivamente, si potrà procedere alla sua sepoltura. Nel caso di età inferiore alla 28esima i genitori non sono chiamati a fare alcuna denuncia all’anagrafe e, in merito alla sepoltura, dovranno fare richiesta esplicita:

«Nei casi previsti dai commi 2 e 3, i parenti o chi per essi sono tenuti a presentare, entro 24 ore dall’espulsione od estrazione del feto, domanda di seppellimento alla unità sanitaria locale accompagnata da certificato medico che indichi la presunta età di gestazione ed il peso del feto»

Se questa non dovesse arrivare i “prodotti abortivi”, così come indica la legge, verranno trattati come rifiuti speciali ospedalieri dalla Asl di competenza.

Esempio di modulo che viene sottoposto al genitore per richiedere la sepoltura del feto

Da questo primo quadro normativo, comune a tutto il territorio nazionale, si comprende chiaramente che a una donna che decide di abortire entro la 20esima settimana, nessuno chiederà di firmare un modulo per la sepoltura del feto. Tanto meno in nessun caso verrà considerato necessario apporre il suo nome sulla lapide, in caso di eventuale espressa richiesta di sepoltura.

La conversazione surreale con la camera mortuaria

«Non è la mia tomba, ma è quella di mio figlio» scrive Marta nel post di denuncia sui social. Per poi riportare una conversazione surreale con la camera mortuaria, a distanza di sette mesi dall’aborto. Il feto era ancora lì. «Signora noi li teniamo perché a volte i genitori ci ripensano. Stia tranquilla anche se lei non ha firmato per sepoltura, il feto verrà comunque seppellito per beneficenza».

Le viene detto così, aggiungendo di non preoccuparsi perché il bambino avrà il suo posto con una sua croce, «e lo troverà con il suo nome». Di quale nome l’interlocutore stesse parlando Marta non lo comprende subito, ben consapevole di non aver mai registrato nessun nome del feto sul registro anagrafe. Ma la risposta dall’altra parte è chiara: «Il suo nome signora».

Il ruolo delle associazioni pro life

Non avendo fatto alcuna domanda di sepoltura, per Marta è valso l’iter normativo alternativo: i “prodotti del concepimento” senza richiesta vengono infatti sepolti lo stesso. Così come anche ribadiscono alcuni dei regolamenti regionali in Italia, è il caso di Lombardia e Marche. O come l’emendamento del Veneto, di cui riportiamo un breve estratto.

«Nel caso in cui il genitore o i genitori non provvedano o non lo richiedano, l’inumazione, la tumulazione o la cremazione è disposta, a spese dell’azienda ULSS, in una specifica area cimiteriale dedicata o nel campo di sepoltura dei bambini del territorio comunale in cui è ubicata la struttura sanitaria»

Il problema sta nelle procedure, affidate completamente alla discrezione delle istituzioni pubbliche.

L’espressione «per beneficenza» della funzionaria della camera mortuaria chiamata da Marta non è casuale. Molto spesso infatti lo smaltimento tramite sepoltura cimiteriale dei “prodotti del concepimento” viene presa in carico da associazioni di volontariato pro life e antiabortiste. Un dialogo che viene creato direttamente con gli ospedali, spesso affrancati dalla presenza delle associazioni che nella maggior parte dei casi si offrono di smaltire a loro spese i prodotti abortivi. Un risparmio di denaro e di tempo per molti ospedali in difficoltà di risorse.

Le istruzioni dell’Armata Bianca, una delle principali associazioni pro life per la sepoltura dei feti
Le istruzioni dell’Armata Bianca, una delle principali associazioni pro life per la sepoltura dei feti

Di quale “beneficenza” parla il comune al telefono con Marta quando la informa della sepoltura del figlio? La donna fa difficoltà ancora a capirlo, come del resto le altre decine di denunciatarie che si sono ritrovate il proprio nome e cognome su una lapide.

Non esiste alcun obbligo sulle generalità

Tutto questo può accadere all’insaputa della donna? Purtroppo sì e il caso di Roma ne è la prova. La falla di una normativa poco stringente porta alla nascita di tanti differenti regolamenti territoriali che permettono alle associazioni sopra citate di procedere alla sepoltura nella più completa inconsapevolezza dei genitori.

Da qui la degenerazione di modalità arbitrarie che sfociano in vere e proprie violazioni dei diritti, come quella delle generalità della donna affisse sulla croce di sepoltura. Va da sé che nonostante la giungla normativa, non esiste alcun obbligo formativo che determini la presenza delle generalità nella sepoltura, e questo lo dimostrano bene gli altri casi di cimiteri, come quello al Laurentino di Roma per esempio, in cui i feti vengono identificati con un codice di riferimento.

È per questo che ora la presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul Femminicidio Valeria Valente invita a riflettere su una modifica sostanziale della legge: «Una donna costretta ad interrompere la gravidanza in stato avanzato ha il diritto di sapere e decidere cosa succederà al feto» ha detto, «se la legge o delle procedure prevedono che la donna non venga informata vanno cambiate». Valeri non ha dubbi su quanto una croce bianca con il proprio nome e cognome in un cimitero è un vero e proprio choc oltreché «una violenza per chi ha un vissuto e un sentire diverso».

E a pensarla così c’è anche l’associazione romana “Differenza Donna”, che in poche ore ha raccolto la testimonianza di decine di persone che hanno scoperto i loro nomi sulle tombe del cimitero Flaminio e che ora si mobilita per una vera e propria class action.

Un’azione legale collettiva che passerà anche alla richiesta d’incontro con il ministro della Salute Speranza, che al momento non si è espresso sulla questione, seguendo la stessa linea della sindaca di Roma Virginia Raggi. Fanno ancora da eco anche alcuni gruppi di parlamentari e di consiglieri regionali del Lazio che hanno da poco presentato interrogazione parlamentare, una in particolare anche al presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti.

Un triste scaricabarile

Il San Camillo di Roma, la struttura ospedaliera dove Marta è stata ricoverata, ha ribadito: «Non siamo in nessun modo responsabile della modalità di sepoltura del feto, né ricopriamo alcuna funzione». Un’affermazione che trova riscontro nel regolamento già citato della polizia mortuaria e che, sulle dinamiche rispettate dall’ospedale, ci fornisce una informazione in più sull’elemento delle generalità.

La norma infatti prevede che i feti con età gestazionale compresa tra le 20/28 settimane siano identificati con il nome della madre «solo ai fini della redazione dei permessi di trasporto e sepoltura». Dunque il certificato di autorizzazione per trasportare il feto avrebbe bisogno del nome e cognome della donna e sarebbe poi consegnato all’Ama o all’associazione di volontariato in questione per la presa in carico del feto. Insieme al documento di autorizzazione, anche quello del medico legale della Asl.

Secondo la versione dell’ospedale dunque il problema di privacy sarebbe avvenuto all’interno del cimitero Flaminio in una fase dell’iter di esclusiva competenza dell’Ama. Ma lo scaricabarile non tarda ad arrivare. L’Ama dal canto suo dice che la sepoltura del feto è stata effettuata su specifico input dell’ospedale presso il quale è avvenuto l’intervento, e autorizzata dalla Asl. Nonostante le precisazioni però il punto della questione rimane. Chi ha deciso per quei nomi sulle croci?

Il Garante

L’intervento del Garante per la protezione dei dati personali ha dato ancora più forza all’azione pubblica delle donne violate. È stata aperta dunque aperta un’istruttoria che avrà l’obiettivo di «fare luce sulla conformità dei comportamenti adottati dai soggetti pubblici coinvolti e attraverso l’utilizzo in materia di privacy».

Sulla violazione dei diritti gli esperti di legislazione sembrano non avere dubbi. Ad essere stato gravemente contraddetto è l’articolo 9 del Regolamento Europeo sulla Privacy 679/18. In questo frangente la legge vieta di trattare dati personali «che rivelino l’origine razziale o etnica (…), nonché trattare dati genetici, dati biometrici intesi a identificare in modo univoco una persona fisica (…)».

Un punto fermo a cui il Garante potrà far riferimento. Senza tralasciare poi l’effettiva assenza, su tutti i tipi di regolamenti citati, di obblighi formali relativi alle generalità da apporre sulle lapidi.

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