Gaza, l’esperto Goren: «Netanyahu ha i giorni contati, presto elezioni anticipate. L’Iran? Aspetta la fine dei negoziati per agire» – L’intervista

L’analista israeliano Nimrod Goren riflette sulle possibili evoluzioni del conflitto: «Israele dipende dal sostegno Usa in aree chiave»

Israele non poteva non lanciare un’offensiva militare contro Hamas dopo l’affronto del 7 ottobre. Al contempo l’obiettivo proclamato dal governo all’alba di quell’operazione di «sradicare» l’organizzazione islamista era di fatto fuori dalla sua portata. Nimrod Goren lo spiegò chiaramente a Open già pochi giorni dopo il 7 ottobre. Sei mesi dopo, il ritiro di una parte consistente delle truppe israeliane dalla Striscia è il sintomo del riconoscimento da parte del governo di questa semplice, quanto inconfessabile, verità? O più concretamente l’effetto delle pressioni sempre più intense degli Usa a porre fine alla carneficina nella Striscia? O ancora della necessità di concentrare gli sforzi su una minaccia ora più impellente, quella sbandierata dall’Iran? O tutte e tre le cose insieme? E se davvero la guerra è vicina al capolinea, ci arriverà davvero presto o tardi anche il leader che vi ha legato il suo destino politico, Benjamin Netanyahu? Fondatore e presidente del think-tank Mitvim e Senior Fellow for Israeli Affairs al Middle East Institute, Goren risponde nuovamente alle domande di Open – e di mezzo mondo in questo momento – dal suo ufficio di Gerusalemme. Disegnando uno scenario ben più mobile di quanto molti in Europa siano disposti a riconoscere.  


L’operazione di terra israeliana lanciata dopo il 7 ottobre si poneva due obiettivi chiave: sradicare Hamas e riportare a casa gli ostaggi. È eccessivo dire che sei mesi dopo abbia fallito nel raggiungerli? 


«Dipende se consideriamo che siamo al suo termine o in una fase di continuazione dell’operazione militare in una forma diversa. Questo al momento non è ancora chiaro, anche per via del destino incerto dei negoziati in corso al Cairo. Va però precisato che il primo obiettivo era duplice in realtà: assicurarsi che Hamas non governasse più Gaza e smantellare le sue capacità militari. Al momento direi che questi sono stati raggiunti in maniera parziale: le capacità militari di Hamas sono state duramente colpite, anche se forse non con l’incisività che la maggio parte degli israeliani si auguravano. Mentre certamente la delusione più grande riguarda gli ostaggi: il fatto che così tanti di loro siano ancora prigionieri a Gaza dopo sei mesi è considerato dagli israeliani un grande fallimento, anche della nostra leadership politica». 

Guardiamo dentro quel successo “parziale”. Cosa resta esattamente oggi di Hamas? 

«Hamas come organizzazione politico-militare esiste e opera ancora. Questo era chiaro sin dall’inizio: non puoi smantellare un’ideologia sulla quale un’organizzazione si fonda. Ma in termini di capacità militari e di governare Gaza, è stata danneggiata in modo piuttosto significativo. Il problema sta però nell’altro vero fallimento di Israele in questi mesi: l’incapacità di stabilire chi o cosa sarebbe dovuto venire dopo Hamas. Oggi Hamas è ancora lì, ma non è più in grado di governare efficacemente la Striscia. Ma se non essa, chi? Molti in Israele, inclusi diversi ministri, all’inizio della guerra evocavano un possibile ruolo per un’Autorità palestinese riformata, con il necessario supporto regionale e internazionale, con l’obiettivo di unire la società palestinese attorno a un governo più moderato e “costruire” il partner di futuri negoziati per una soluzione a due Stati. Ma il governo Netanyahu ha bloccato quest’ipotesi, creando non solo grandi frizioni con gli Usa e gli altri interlocutori regionali, ma anche un problema molto concreto per l’esercito: now what? Una volta terminata l’operazione chi verrà al suo posto? E Hamas non approfitterà del vuoto per ricostruire le sue capacità, gettando così al vento qualsiasi risultato sia stato conseguito?».

Neppure oggi il governo Netanyahu ha un piano chiaro in testa per il dopoguerra a Gaza?

«Stiamo ai fatti. Dopo lunghe pressioni americane perché presentasse un piano per il day after alla fine Netanyahu ha esplicitato la sua idea di fondo: la necessità per Israele di mantenere essenzialmente il controllo militare della Striscia, affidando più o meno progressivamente la gestione degli affari civili a clan locali non affiliati a Hamas. Una visione che crea attriti con i principali partner internazionali, perché non appare sostenibile, e che limiterebbe la capacità di gestire altri fattori di rischio di cui il Paese deve tenere conto. Ma che soprattutto non coincide con ciò che vuole la gente in Israele. La maggior parte degli israeliani non vuole che l’esercito resti a Gaza, vedendo da mesi il prezzo da pagare: soldati via da casa per lunghi periodi, caduti, feriti. Non vogliono che ciò continui».

Sta dicendo che l’opinione pubblica in Israele ha una visione più lungimirante rispetto ai suoi leader sulla via d’uscita da questa crisi? Forse perfino più incline a trovare delicati compromessi?

«Il 7 ottobre è stato davvero un momento spartiacque per Israele, e da quel giorno molte cose cambiano in continuazione, ma una cosa è rimasta costante: il sentimento del fallimento della leadership di Netanyahu prima, durante e dopo il 7 ottobre. Il 70% dell’opinione pubblica, a tratti anche di più, vuole che Netanyahu si prenda la responsabilità, convochi nuove elezioni e sia sostituito alla guida del Paese. Quello su cui gli israeliani non sono allineati è sul dopoguerra. Su questo c’è molta confusione. Il senso di insicurezza è ora il più significativo fattore che muove il loro posizionamento politico. C’è la sensazione diffusa che le politiche adottate prima della guerra non hanno funzionato, ma c’è anche un grande senso di sfiducia verso i partner palestinesi, anche quelli più moderati. Secondo sondaggi recenti non più del 35% della popolazione ebraica di Israele oggi dichiara di sostenere la soluzione dei due Stati – un valore davvero basso rispetti agli anni passati. Non che abbiano in mente altre soluzioni a portata di mano, ma al momento non c’è la disponibilità a parlare di compromessi, concessioni territoriali, cose che potrebbero danneggiare la sicurezza del Paese nel lungo periodo. C’è però eccome la disponibilità a voltare pagina all’interno e affidarsi a una nuova leadership, che sia più ragionevole, più responsabile e più concentrata sugli interessi nazionali piuttosto che sulla sopravvivenza politica personale».

Peccato che perché ciò accada davvero serve che quest’orientamento dell’opinione pubblica sia poi tradotto in azione politica da uno o più degli attori in grado di far cadere effettivamente il governo. Vede ora qualche spiraglio in questo senso? 

«Le cose stanno cominciando a muoversi. Per mesi i sondaggi di opinione pubblica che mostravano una chiara volontà di cambiamento non erano accompagnati da movimenti reali in quella direzione. Il focus della società era tutto sul processare ciò che è accaduto il 7 ottobre, sul prendersi cura dei propri cari e sulla risposta da dare a Gaza: mancava la motivazione e anche un certo senso di legittimità di occuparsi di politica interna. Nell’ultimo mese o due questo è cambiato: abbiamo visto proteste sempre più massicce nelle strade del Paese per chiedere il rilascio degli ostaggi e elezioni anticipate, e a fronte di ciò diversi politici fare le loro mosse e manovre – Gideon Sa’ar che lascia la coalizione di unità nazionale, Benny Gantz che va a Washington per accreditarsi come alternativa a Netanyahu, elezioni primarie nel partito di Yair Lapid e presto in quello laburista. Senza contare le tensioni tutte interne alla destra come la querelle sulla coscrizione degli ultraortodossi che rappresenta un grave fattore di crisi per la coalizione. Tutto sommato quindi mi sembra molto difficile che la coalizione di governo nella sua attuale composizione – dall’estrema destra al centro, con così tanti interessi diversi – possa reggere ancora per molto. Ci vorrà ancora un po’ di tempo perché questi processi maturino insomma, si potrò tardare forse fino alla fine dell’anno o all’inizio del prossimo, ma alla fine si andrà a elezioni anticipate».

Benny Gantz è dato da mesi come il più credibile candidato alla premiership al posto di Netanyahu. Ha senso per lui, anche dopo che ha rotto gli indugi e chiesto apertamente elezioni anticipate, restare nel gabinetto di guerra di “unità nazionale” formato dopo il 7 ottobre?

«Prima o poi dovrà andarsene: è chiaro che non potrà presentarsi alle elezioni da dentro la coalizione. Deve però tenere conto di una situazione un po’ paradossale, perché il motivo per cui il suo partito è volato nei sondaggi negli ultimi mesi è che è stato visto dall’israeliano medio come volto della responsabilità. Per il bene superiore della sicurezza di Israele si è assunto la responsabilità di entrare nella coalizione di un governo cui pure si opponeva, portandovi la sua esperienza di ex capo di Stato maggiore dell’esercito, insieme a quella degli altri parte del suo partito, come Gadi Eisenkot. Ma proprio per questo fin quando c’è ancora un serio rischio per la sicurezza del Paese – potrebbe esserlo meno ora da Gaza ma lo è molto con Hezbollah e con l’Iran – la maggior parte degli israeliani vuole che quei due restino al governo, si fidano di loro più che di Netanyahu. Quindi penso che Gantz resterà nel gabinetto di guerra almeno fin quando non sarà siglato il cessate il fuoco a Gaza, che potrebbe aprire la strada a un accordo anche in Libano per ridurre le tensioni. Se ciò accadrà entro un paio di mesi, penso che lo vedremo uscire quando la Knesset torna a riunirsi dopo l’attuale pausa, a fine maggio»

Quanto è concreto oggi il rischio di un attacco dall’Iran in risposta al raid sul consolato di Damasco? E che forma potrebbe assumere?

«Israele si sta preparando in vista di una possibile risposta dell’Iran da ormai dieci giorni, senza certezze sul se, come e quando questo arriverà. Potrebbe tentare di colpire Israele direttamente dal suo territorio, come potrebbe colpire un obiettivo israeliano o ebraico nel mondo, le possibilità sono molte. C’è poi il discorso a parte di una possibile escalation con Hezbollah al confine con il Libano, minaccia molto seria per Israele che dal 7 ottobre però non si è mai davvero concretizzata – anche se gli scambi di fuoco quotidiani hanno costretto decine di migliaia di persone a lasciare da ormai sei mesi le loro case. Gli americani stanno cercando attivamente di abbassare la tensione con Hezbollah, ma è ormai chiaro che c’è un legame tra i combattimenti a Gaza e gli avanzamenti su quel fronte: fino a quando non c’è un cessate il fuoco o almeno una pausa Gaza sarà molto difficile implementare la formula diplomatica sviluppata per ridurre la tensione in Libano. Tutto rinvia dunque ai negoziati al Cairo in vista di una possibile tregua. Se ci sarà una svolta nei prossimi giorni, e molti attori sono impegnati in questo senso, si aprirà la porta anche a uno scioglimento della tensione al nord, e penso che lo stesso Iran – secondo alcuni messaggi che filtrano da Teheran – stia aspettando di vedere l’esito di quei negoziati. Si sperava in una svolta per l’inizio del Ramadan, ora ci si spera per la sua fine. Ma per fortuna ci sono attori come gli Usa e l’Egitto impegnati a guidare questo processo difficilissimo verso uno sbocco positivo». 

La postura della Casa Bianca verso il governo israeliano in effetti sembra farsi di settimana in settimana sempre più “intollerante”. Pensa che la leadership israeliana si rende conto di quanto stia giocando col fuoco rischiando di alienarsi il sostegno del suo più importante alleato al mondo?

«Il sostegno americano è vitale per Israele. Il fatto che dall’inizio di questa guerra Biden sia stato al fianco di Israele, lo abbia visitato, l’abbia supportato nel suo cercare una legittima risposta all’attacco subito, facendo al contempo tutto ciò che poteva per prevenire un ulteriore allargamento del conflitto, è stato molto importante per Israele. Ma col tempo il rifiuto di Netanyahu di presentare un piano per il day after a Gaza e di allinearsi alle richieste Usa, in particolare sulla questione umanitaria, ha complicato il rapporto con Biden, e il messaggio da Washington è diventato sempre più chiaramente improntato al fastidio, sino all’invocazione esplicita da un peso massimo del partito del presidente di elezioni anticipate in Israele. Segnali chiarissimi d’insoddisfazione che Biden ha poi inviato anche direttamente a Netanyahu nell’ultima, dura conversazione telefonica la scorsa settimana. Che peraltro ha portato a un immediato cambio di politiche da parte di Israele sul ritmo di invio di aiuti umanitari nella Striscia. È chiaro quindi che non appena gli americani usano davvero le leve di cui dispongono e sono chiari nelle loro richieste Israele segue rapidamente, perché dipende dal sostegno degli Usa in aree chiave».

Non è un segreto che la scommessa di Netanyahu fosse anche quella di riuscire a navigare sino a novembre, nell’attesa della possibile rielezione di  Donald Trump. Il quale però nelle ultime settimane ha detto che Israele deve presto “finire il lavoro” a Gaza. Segno che persino lui deve tenere conto della frustrazione internazionale quasi unanime contro Israele?

«La capacità di Trump di lavorare in sintonia con la comunità internazionale è quanto meno discutibile. Lui prende le sue posizioni, in maniera del tutto inaspettata. La verità è che anche prima dell’inizio della guerra la sua opinione su Netanyahu non era così cristallina. In diversi memoirs usciti negli Usa dopo la fine della sua presidenza sono emerse frasi pronunciate da Trump molto dure su di lui. Quindi non è che ci sia quest’amicizia così solida tra i due. Certo Netanyahu preferisce ci siano i Repubblicani al potere. E anche per questo potrebbe puntare a che si vada a elezioni in Israele solo dopo che si sono svolte quelle americane, per avere chiaro con quale amministrazione Usa il prossimo primo ministro israeliano avrà a che fare. Ma non scommetterei uno shekel sul fatto che sarà ancora lui».

Leggi anche: