Perché le proteste a Hong Kong non si fermeranno, se la polizia continuerà a picchiare – L’intervista

Michael C. Davis insegna diritto all’università di Hong Kong e ha spiegato a Open che è la violenza poliziesca a fare da benzina alle mobilitazioni

Negli passati le proteste antigovernative della popolazione di Hong Kong erano sempre scemate dopo poche settimane. Quest’estate invece sono già più di due mesi che milioni di cittadini continuano a scendere in strada. E sono arrivati anche a sfondare la porta del Parlamento e a bloccare l’aereoporto internazionale della città.


Prima di quest’estate, la polizia di Hong Kong aveva usato il gas lacrimogeno solo una volta, in una manifestazione nel 2014. L’indignazione popolare era stata tale che non ne aveva mai più fatto uso. Ora invece la polizia è arrivata a usare il gas urticante quotidianamente, ha caricato i manifestanti con manganelli e sparato proiettili di gomma che hanno, tra l’altro, colpito una ragazza che ora rischia di perdere un occhio.


Fonte: Epa | Una manifestante indossa su un occhio una benda colorata di rosso in segno di solidarietà con la ragazza colpita a un occhio dalla polizia con un proiettile di gomma

Michael C. Davis: «Se la Cina invadesse Hong Kong, i giovani fuggirebbero all’estero»

Per Michael C. Davis, professore di diritto e relazioni internazionali all’Università di Hong Kong e alla O.P. Jindal in India, questi due primati, la durata delle proteste e la risposta della polizia, sono strettamente collegati. «Il grande pubblico rimane dalla parte dei manifestanti perché assiste a questa reazione estrema della polizia. Quello che Hong Kong teme più di ogni altra cosa al mondo è che l’isola diventi come il resto della Cina, sottomessa cioè a un regime duro e autoritario, e la polizia sta dimostrando esattamente cosa significa vivere in un regime del genere», spiega l’esperto a Open.

La sovranità dell’isola è stata trasferita nel 1997 dal Regno Unito alla Repubblica Popolare cinese e da allora Hong Kong gode di uno statuto semi-autonomo, garantito fino al 2047. E questa data fa paura, fa più paura ai giovani che a coloro che sono già avanti con l’età. Nel 2047 i ventenni di oggi avranno 50 anni e dovranno mettere in discussione l’indipendenza del loro Stato e le condizioni di democrazia in cui sono cresciuti.

«I giovani vedono di fronte a loro un futuro incerto, temono addirittura che non potranno nemmeno aspettare il 2047 perché assistono già a ingerenze cinesi sempre più frequenti», afferma Davis. «Questi giovani hanno una solida cultura della democrazia e per loro l’identità di Hong Kong risiede nella sua indipendenza. Se la Cina dovesse invadere militarmente Hong Kong, molti ragazzi fuggirebbero probabilmente all’estero».

Foto: Epa | La polizia arresta un manifestante a Hong Kong, 11 agosto 2019

L’ipotesi che Pechino scenda in campo con l’esercito per una nuova Tienanmen non è remota: «Se i manifestanti continuano a spingere, questo è quello che avverrà: la Cina dichiarerà lo stato di guerra», afferma Davis, «e ci sono modi in cui può farlo restando nei parametri consentiti dalla legge». Sono già stati identificati contingenti militari cinesi tra la polizia dell’isola, che si rivolgevano ai colleghi di Hong Kong chiamandoli «compagni», pratica comune in Cina ma inconsueta nel territorio semi-autonomo. La governatrice Carrie Lam è di fatto sparita dalla scena pubblica e la sensazione diffusa è che la polizia risponda direttamente agli ordini di Pechino. Secondo vari media, sono stati individuati rinforzi militari cinesi nella città di Shenzhen, a 30 chilometri da Hong Kong.

«La Cina è la seconda economia del mondo, ma il governo è estremamente insicuro rispetto alla sua leadership interna. Teme che il regime non venga più tollerato, specialmente dalla borghesia: per questo reprime ogni forma di dissenso», spiega Davis. E aggiunge: «Quello che le autorità non capiscono è che non possono agire, in una società di tradizione liberale come Hong Kong, come fanno in Cina». Se l’esercito cinese interverrà a Hong Kong, i danni saranno enormi anche per l’economia dell’isola, la cui prosperità è legata alla sua condizione di oasi liberale. Di conseguenza ne trarrà svantaggio la Cina stessa, per cui Hong Kong è un riferimento economico e finanziario fondamentale.

Secondo Davis, la soluzione più conveniente per entrambe la parti sarebbe che la Cina accettasse le richieste dei cittadini di Hong Kong, ora rivendicate anche dai cittadini più filocinesi: il ritiro completo della legge sull’estradizione, indagini indipendenti sulle violenze della polizia e le dimissioni di Carrie Lam. Non si tratta di condizioni irrelistiche: Lam è già screditata, la legge è stata sospesa e le immagini delle violenze della polizia hanno fatto il giro del mondo. Ma Pechino non sembra disposta ad aprire un dialogo con le piazze: «I vostri tentativi di giocare con il fuoco si ritorceranno contro di voi», ha intimato un portavoce del governo ai manifestanti.

Un intervento internazionale? «L’Europa è troppo divisa e, per quanto riguarda l’America, la simpatia di Trump per i leader autoritari non è un segreto per nessuno», è l’aspro commento di Davis, che conclude: «Non vedo nel prossimo futuro nessuna possibile fine degli scontri».

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