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Coronavirus, quanto funziona il sistema di emergenza italiano? La verifica

25 Febbraio 2020 - 18:41 Felice Florio
Per le emergenza saranno aperte ai civili le strutture militari. Intanto le associazioni di categoria denunciano: «I medici lavorano senza protezioni»

Il numero per l’emergenza Coronavirus messo a disposizione del ministero della Salute, il 1500, è irraggiungibile da giorni e le segnalazioni in Lombardia, prima dell’attivazione del numero regionale dedicato al coronavirus – 800 894 545 – dovevano per forza confluire sul numero unico delle emergenze, il 112. Il tempo di attesa è salito, in molti casi, a 5 minuti: in casi di vero allarme può essere troppo.

Mentre il sistema cerca di gestire il carico di telefonate e segnalazioni, emergono altri due problemi che palesano qualche falla nella preparazione dell’Italia alla nuova emergenza. Primo, la penuria dei kit diagnostici per il coronavirus: c’è chi, individuato come caso sospetto, attende un tampone da venerdì 21 febbraio. Secondo, la corsa contro il tempo degli ospedali che devono allestire i posti letto per il trattamento dei pazienti contagiati.

La corsa ai posti letto

«Adesso non c’è nessun tipo di problema: Abbiamo disponibilità di 900 posti letto in terapia intensiva. Abbiamo bloccato tutte le attività di elezione quindi stiamo liberando letti, stiamo predisponendo altri letti in reparti che erano chiusi», ha detto l’assessore al Welfare di Regione Lombardia, Giulio Gallera, a Sky Tg24 sulla capacità di accoglienza delle strutture ospedaliere lombarde. Angelo Borrelli, commissario per l’emergenza, ha aggiunto al Corriere che sono stati reperiti «quasi 3.500 posti letto nelle strutture militari, di questi 1.789 sono dell’ aeronautica militare».

Sono tutte le città di Italia, ora, ad attrezzare le strutture ospedaliere per rispondere all’emergenza. Il rischio, nel caso in cui i contagi continuino ad aumentare, è di non avere abbastanza posti letto per i pazienti. Se il 20% dei casi richiede un ricovero, solo il 5% deve ricorrere a terapia intensiva. Ma di che numeri stiamo parlando? «Oltre alle terapie intensive, servono aree dove poter ricoverare casi anche meno gravi ma comunque impegnativi sotto il profilo clinico. Per questioni di sicurezza queste aree dovranno essere isolate», ha sottolineato Carlo Palermo, segretario nazionale del sindacato dei medici Anaao Assomed.

Il pericolo chiusura delle strutture

«A tutto questo ci arriviamo malissimo – ha denunciato Palermo al Quotidiano Sanità -. Perché ricordiamo che, in 10 anni di politiche di risparmi sulla sanità, sono stati tagliati ben 70.000 posti letto. Abbiamo una dotazione di circa 3 posti letto ogni 1.000 abitanti contro una media Ue di 5 per 1.000 abitanti». Preoccupa ancora di più il rischio di chiusura degli ospedali a causa della contaminazione, come avvenuto a Codogno e a Schiavonia. Persino il Policlinico di Milano ha dovuto bloccare un reparto perché infetto.

«In queste tre circostanze è stata gestita male la fase ospedaliera – ha ammesso Palermo -. Significa che il pre-triage non è riuscito a individuare per tempi casi e si è intervenuti troppo tardi. È fondamentale che siano predisposti dei percorsi separati per chi viene ritenuto infetto». Dopo il caso del “paziente uno” a Codogno e dei cinque sanitari contagiati nell’ospedale, le strutture stanno adeguando le procedure. A Cremona e al San Giovanni Bosco di Torino sono state già allestite delle tende all’esterno dove i pazienti sono sottoposti a una prima cernita. Ma gazebo e tende della Protezione civile per il pre-triage esterno stanno comparendo nella maggior parte degli ospedali di Toscana, Piemonte e Veneto.

Scarseggiano i tamponi

«La prova tampone va fatta solo in alcuni casi circostanziati. Il fatto che negli ultimi giorni si sia esagerato con la prova tampone non corrisponde alle prescrizioni della comunità scientifica». Il monito è stato lanciato dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Ma sono migliaia le persone in lista d’attesa per il controllo diagnostico, inserite nelle liste Ats a partire dallo scorso 21 febbraio. Saranno stralciati i loro nomi o si riuscirà a procedere, analizzando non solo chi è entrato in contatto con persone positive ma anche chi ha avuto rapporti ravvicinati con persone sospette?

Uno tra i primi a denunciare l’assenza di tamponi è stato il sindaco di Bertonico, comune in isolamento nella zona rossa lombarda. «Ero stato convocato per fare un tampone ma mancano i kit». Come lui, tanti altri cittadini inseriti nelle liste dell’Ats e mai più richiamati per il test. «Aspettate in casa finché non arrivano» è la risposta che viene data a chi, dalla quarantena, prova a chiamare i numeri d’emergenza per capire cosa fare. Fuori e dentro le zone rosse.

«Sono state segnalate esigenze di ulteriore approvvigionamento di tamponi – ha dichiarato Borrelli la sera del 24 febbraio -, ma non mi pare che ci siano puntuali difficoltà cosi come si sta procedendo all’approvvigionamento di materiale sanitario, mascherine e quant’altro». Gli ordini effettuati dal Sistema sanitario nazionale di nuovi tamponi dovrebbero arrivare nelle prossime ore.

Medici senza protezioni

Intanto è arrivato l’appello di tre presidenti di Regione, accolto da Conte, per l’approvvigionamento di strumenti per prevenire il contagio. Stefano Bonaccini, ha dichiarato: «D’intesa con i presidenti Zaia e Fontana, chiediamo il blocco delle esportazioni dei dispositivi di protezione individuale, prodotti dalle aziende italiane, e la requisizione di questo materiale».

«La gestione regionale dell’emergenza coronavirus ha dimostrato di essere inefficace – ha confermato Filippo Anelli, presidente della Federazione nazionale degli ordini dei medici -. Da Nord a Sud i colleghi lamentano tantissime situazioni nelle quali i medici di medicina generale, continuità assistenziale, sistemi di emergenza, ambulatori, Inps e personale degli Ospedali non sono stati messi nelle condizioni di lavorare in sicurezza. Mancano o scarseggiano i dispositivi individuali di sicurezza».

Infine, il Mattino di Napoli segnala che in Campania, in alcuni ospedali, sono finite le tute monouso del personale ospedaliero. E tra medici più esposti ci sono le guardie mediche che «sono state lasciate a “mani nude” a visitare pazienti sintomatici – ha dichiarato Tommasa Maio, segretaria della Federezione dei medici di Medicina generale -. Se si continua così sarà necessario mettere in quarantena tutti i colleghi delle aree a rischio».

Il parere degli esperti

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