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Coronavirus, nelle case famiglia «è impossibile» rispettare un metro di distanza: «I bambini non possono vedere i genitori né giocare come prima»

04 Aprile 2020 - 10:06 Fabio Giuffrida
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«Noi educatori ci sentiamo invisibili. Come facciamo ad accudire un neonato a un metro di distanza? Come dobbiamo rapportarci con i ragazzi disabili che hanno difese immunitarie bassissime?». E, anche in questo caso, niente mascherine e niente tamponi. Proprio come succede nelle case di cura per anziani

Nelle case famiglia ci sono bambini e adolescenti. Ci sono anche neonati, di pochi giorni, come racconta a Open Serena Vinci, educatrice sociale di Roma, che si occupa di minori da 0 a 6 anni: «Parliamo di bambini abbandonati, lasciati in ospedale alla nascita o allontanati dalla famiglia per motivi di tossicodipendenza, maltrattamenti gravi o storie di carcere». La prima cosa che Serena racconta è che si sente «un’invisibile»: «nessuno ha prestato particolare attenzione» a lei, alle sue colleghe e a chi si prende cura dei bambini soli. Il rischio è che, senza una normativa chiara, le case famiglia possano essere travolte dal Coronavirus come già successo con le case di cura per anziani dove ogni giorno muoiono centinaia di persone. «Noi, ad esempio, non possiamo rispettare il metro di distanza. Come facciamo a farlo se dobbiamo accudire un bimbo appena nato?» ci spiega.

«Minori soli con genitori ricoverati per Covid-19»

A rincarare la dose è Gianni Fulvi, presidente del Coordinamento nazionale delle comunità per minori: «In una delle strutture mi chiedono di ospitare due ragazzini che, pochi giorni fa, sono stati multati dopo essere stati sorpresi in giro con i genitori. Stento a credere che abbiano rispettato la quarantena. Come faccio, quindi, ad accoglierli nella mia casa famiglia? Il rischio di contagiare gli altri è altissimo. A questo si aggiungano i minori soli con genitori ricoverati per Covid-19, ragazzini che potrebbero anche essere positivi al virus ma asintomatici. Bisogna proteggerli, si tratta di minori che probabilmente non potranno essere nemmeno affidati ai nonni, i soggetti più colpiti da questa pandemia».

«Stop alle visite, i bimbi sono nervosi e piangono»

Marco Bellavitis, invece, vicepresidente della “Cooperativa Accoglienza onlus”, ente che fa parte di “Casa al plurale”, paragona le case famiglia alle residenze per anziani: «Noi come le Rsa, abbiamo pazienti vulnerabili ma siamo finiti in secondo piano. I nostri ragazzi disabili, ad esempio, hanno difese immunitarie bassissime, per questo abbiamo dovuto sospendere ogni tipo di accesso dall’esterno. E proviamo in tutti i modi a non avvicinarci troppo, per rispettare il distanziamento sociale, anche se in alcuni casi come si fa? Come dovremmo fare con i bimbi più piccoli? Quelli più grandi, invece, hanno capito bene che non possono più giocare abbracciandosi sul letto né stare troppo vicini. Ci chiedono spesso della scuola, degli allenamenti, della parrocchia, vorrebbero tornare alla vita di sempre». Ma è ancora troppo presto.

A questo si aggiunga lo stress psicologico di non poter vedere nemmeno i loro genitori naturali: stop a tutte le visite. Fuori dalle strutture anche i volontari, entrano solo i dipendenti per ridurre al minimo il rischio di contagio. «Piangono, sono nervosi, spesso chiedono dei loro genitori. Intanto, noi educatori, da sempre in linea linea, abbiamo spiegato loro costa sta accadendo, ovviamente con le loro parole. Abbiamo raccontato ai bambini la storia di “Coronello” che si “insinua” tra gli abbracci delle persone e che non ci permette di vedere mamma e papà. Almeno per ora», aggiunge l’educatrice Serena Vinci.

«Niente tamponi, niente mascherine»

E anche nelle case famiglia niente mascherine e niente tamponi: «Le mascherine non ci vengono fornite, per non parlare dei tamponi. Pensate che abbiamo avuto un bimbo con febbre e, nonostante la nostra richiesta, ci è stato risposto di “no, nessun tampone domiciliare”. Così siamo stati costretti a portarlo in ospedale dove il piccolo è stato sottoposto ai tamponi. Per fortuna erano entrambi negativi», racconta Marco Bellavitis, vicepresidente della “Cooperativa Accoglienza onlus”.

E per Antonella Penati, madre di Federico e presidente dell’associazione che porta il nome del figlio, ucciso a 8 anni dal padre, «i bambini, laddove possibile, dovrebbero essere autorizzati a tornare a casa, dalle proprie famiglie»: «Qualcuno si è preoccupato di sapere come stanno?».

Foto in copertina da Unsplash

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