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Coronavirus, l’ex Ilva torna a vendere l’acciaio. L’allarme: «Siderurgia italiana al collasso»

05 Aprile 2020 - 00:40 Angela Gennaro
La serrata delle aziende del mercato siderurgico porta a una discesa del volumi d'affari. E, dicono gli imprenditori, al sorpasso dei concorrenti esteri che continuano a lavorare

L’ex Ilva è il simbolo del dilemma tra lavoro e salute che attanaglia da decenni Taranto e in fondo tutta Italia, e lo diventa ancora di più in tempi di pandemia di Coronavirus. Quando la scelta è tra il lockdown totale e la necessità di mandare avanti un’economia – e un Paese – che rischia di non rialzarsi più da una serrata decisa per fermare l’avanzata del virus.

Lo stabilimento ArcelorMittal non si è mai fermato e sta continuando a funzionare, anche se a regimi minimi: il decreto del presidente del Consiglio dei ministri (il famoso dpcm) che sancisce il lockdown del Paese, ha previsto infatti la prosecuzione di «attività degli impianti a ciclo produttivo continuo». Dal 23 marzo al 3 aprile però per l’ex Ilva vigeva il divieto, deciso dal prefetto di Taranto, Demetrio Martino (cui spettava la decisione di fermare o meno la produzione per eventuali ragioni di sicurezza legate all’emergenza sanitaria) di commercializzare e consegnare l’acciaio prodotto. La misura era quella di consentire all’ex Ilva di lavorare sì, ma con un massimo di 5500 operai per la sola produzione e stoccaggio.

Ora quel divieto è caduto – o meglio, non è stato rinnovato – su decisione dello stesso Martino che ha accolto di fatto la richiesta di riesame del provvedimento che il gruppo indiano aveva inviato con una lettera dell’amministratrice delegata Laura Morselli. Resta, scrive il prefetto, «il monitoraggio e il controllo sulle condizioni di impiego del personale, con riferimento anche ai valori numerici giornalieri e sulla costante e totale applicazione delle misure di prevenzione da rischio sanitario».

Regimi minimi

Lo stabilimento di Taranto, una città nella città con decide di migliaia di operai, può lavorare sì, in tempi di pandemia, ma a determinate condizioni: a regimi minimi, con 3.500 dipendenti diretti e 2mila dell’appalto nei tre turni sulle 24 ore e un produzione che si attesta sui 3 milioni di tonnellate annue d’acciaio. Un assetto che l’azienda si è impegnata a rispettare anche da qui in avanti. Il prefetto di Taranto aveva lasciato alla contrattazione sindacale eventuali ritocchi – al ribasso – di quel numero di persone che devono recarsi al lavoro in tempi di serrata e di coronavirus: quando cioè, insieme alla sicurezza degli impianti, bisogna assicurare le distanze di sicurezza per evitare il contagio.

Lo standard attuale dello stabilimento siderurgico di Taranto, che può riprendere a vendere i semilavorati siderurgici, registra una riduzione di 1,7 milioni di tonnellate rispetto agli ultimi mesi e a fronte di 8 milioni di tonnellate annue a regime. Nella decisione del prefetto ha pesato anche «il rafforzamento delle misure di protezione dei lavoratori».

Se l’ordinanza prefettizia che vietava la produzione ai fini commerciali fosse stata prorogata, l’azienda aveva già paventato la possibilità dell’«avvio delle operazioni di messa in stand-by dell’intera area a caldo dello stabilimento di Taranto, nonché la collocazione in Cig di tutta la forza lavoro il cui impiego non è necessario per svolgere tali operazioni».

Pur continuando «a sostenere tutti i costi legati alla produzione e alla gestione dello stabilimento», dopo l’ordinanza del prefetto, l’azienda infatti in questo periodo di blocco della commercializzazione dei semilavorati non è stata «in grado di realizzare alcun ricavo dalla vendita di quanto prodotto. Ciò aggrava ulteriormente le drammatiche conseguenze economiche e finanziarie causate alla nostra società dalla pandemia e dalle relative misure adottate dal Governo», scriveva qualche giorno fa l’amministratrice delegata di ArcelorMittal, Lucia Morselli, al premier Giuseppe Conte.

Il sindaco non ci sta

«Sembra che le ragioni del profitto abbiano prevalso», commenta il sindaco di Taranto Rinaldo Melucci dicendosi «rammaricato e preoccupato per la retromarcia della Prefettura». L’emergenza epidemiologica «è lungi dall’essere risolta, così stiamo consegnando un rischio troppo grande a una intera città. Mi sembra la solita ingiusta eccezione rispetto alla direzione intrapresa dal Paese».

A fine marzo un operaio dello stabilimento, addetto agli impianti di ossigeno (reparto PGT), è stato colto da malore mentre era in servizio in fabbrica: era il primo caso di operaio dell’ex Ilva positivo al Covid-19. «Il lockdown nazionale non è un gioco», dice il primo cittadino. «Diciamo no alla Pasquetta in spiaggia dei giovani e poi mandiamo migliaia di operai in fabbrica la Domenica delle Palme?».

Il mercato siderurgico

Ex Ilva a parte, il lockdown ha portato a una serie di chiusure nel mercato siderurgico nostrano, soprattuto nella produzione di acciaio, con transazioni che vanno assottigliandosi e volumi d’affari che scendono, «considerando anche il fatto che molti utilizzatori si stanno fermando, come per esempio quasi tutta l’automotive europea», si legge su Siderweb. «Già con un mese di produzione in meno il calo che prevediamo nel 2020 è nell’ordine del 10%», dice Alessandro Banzato, presidente di Federacciai.

«La siderurgia è al collasso», scrive su Twitter il capogruppo al Senato di Italia Viva, Davide Faraone. «Il blocco sta spostando i nostri clienti in Polonia, Repubblica Ceca, Francia, Germania con un calo del 10%, che non è numero freddo, è ricchezza per l’Italia, è lavoro vero e non assistenzialismo».

«La cosa preoccupante che noi vediamo oggi è che i nostri concorrenti europei dell’acciaio stanno lavorando appieno», si lamenta in un’intervista a Il Tempo Massimiliano Burelli, amministratore delegato dell’azienda Acciai Speciali Terni. Ha spento tutto, spiega, nello stabilimento umbro. «Abbiamo dei forni elettrici che non sono come quelli dell’Ilva, si possono riaccendere girando la chiave, come una autovettura». Sono quindi alle prese col lockdown voluto dal governo Conte per fermare i contagi. Ma dell’intero gruppo tedesco Thyssenkrupp, che ha sedi in tutto il mondo, «siamo l’unico impianto fermo», spiega.

«Il nostro concorrente finlandese, che è una azienda partecipata dallo Stato finlandese ed è stata considerata strategica quindi obbligata a lavorare, prosegue la produzione. E anche il nostro concorrente belga Aperam sta lavorando», dice Burelli. «Se fosse stato seguito un lockdown contemporaneo in tutta Europa non si sarebbe creata la situazione in cui noi siamo fermi e i nostri concorrenti lavorano. Purtroppo ognuno ha fatto a modo suo, per nazione, ed è chiaro che stare fermi 2 settimane ci crea problemi». 

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