«Migranti ieri sovraesposti, oggi invisibili. Temo che razzismo e stereotipi covino sottotraccia» – L’intervista

Igiaba Scego da anni è attenta osservatrice della storia e del presente delle minoranze nel nostro Paese. Oggi auspica un ritorno alla normalità, all’insegna però di maggiore solidarietà e comprensione reciproca. Anche tra europei

L’emergenza Coronavirus ci ha reso davvero tutti più buoni, più consapevoli della nostra mortalità o si tratta soltanto di una parentesi emotiva che presto si dissolverà, una distorsione dei media che presto lascerà spazio ad altro? L’emergenza sanitaria ha portato tanti atti di eroismo quotidiano, ma ha anche generato i suoi “mostri”, come hanno provato sulla loro pelle alcuni membri della comunità cinese in Italia, soprattutto all’inizio dell’epidemia quando gli attacchi verbali e fisici nei loro confronti affollavano la cronaca. In compenso alcune delle paure che normalmente popolano il dibattito pubblico, come quelle legate all’immigrazione clandestina, sono passate in secondo piano.


Non c’è garanzia che una volta finita l’emergenza sanitaria, quella economica non porti con sé nuove rivalità, riacutizzando vecchi scontri. Lo fa presente Igiaba Scego, scrittrice italiane che da anni è attenta osservatrice della nostra società nonché studiosa della storia e del presente delle minoranze nel nostro Paese. A questo si aggiunge una nuova apprensione, condivisa dalla scrittrice: che l’epidemia che in questi giorni ci ha trasformato dentro, possa anche trasformarci fuori, allontanandoci anche quando torneremo a frequentare bar e ristoranti, cambiando per sempre la nostra socialità. 


Prima il virus lo portavano i cinesi, poi i residenti di Codogno sono stati visti come potenziali untori. Adesso lo siamo tutti. Sta cambiando la nostra percezione “dell’altro”?

«Siamo in una situazione di emergenza ma il problema grosso che vedo è l’invisibilizzazione dei migranti. Per “l’altro” il ciclo è sempre lo stesso: o si è troppo esposti – e si viene usati nella propaganda – o diventi invisibile. È girata la bufala che gli africani non si ammalano. Per citare un esempio, a Roma è morto Sekou Diabate, mediatore culturale, originario della Costa d’Avorio, una grandissima persona di gran cuore. Eppure girano queste invenzioni. Sembra di stare nell’800 quando si diceva che i neri erano immuni al dolore, una balla che diventò un modo per usarli come cavie. Purtroppo a volte ritornano le frasi di un passato che vorremmo che rimanesse tale. E poi l’etnicizzazione della pandemia è tuttora un pericolo. L’altro giorno ho visto la copertina di una pubblicazione che raccoglie gli scritti di alcuni filosofi intitolata “Zuppa di Wuhan”, con tanto di pipistrelli con gli occhi a mandorla…Insomma, temo che queste cose non spariscano, ma covino sottotraccia».

Come ne usciamo?

«Siamo in un momento molto delicato. La società deve costruire un altro modello di cittadinanza più inclusivo. Non ci sono confini o passaporti, siamo corpi che possono essere attaccati da un virus, e in quanto corpi siamo davvero tutti uguali. Bisogna cogliere questa opportunità per regolarizzare le persone, come fa il Portogallo. E bisogna puntare sul lavoro. Soprattutto nell’emergenza economica perché, come inevitabilmente accade quando c’è una crisi economica, gli stereotipi e il razzismo la fanno da padroni».

Riscontra molto timore per il dopo?

«Tu pensa soltanto alle lavoratrici di cura, quella che chiamiamo “badanti”, che dal giorno alla mattina hanno perso il lavoro. Che tipo di tutele hanno? Cosa gli succederà? Troveranno altri lavori? Già chi aveva delle tutele è spaventato – pensa a chi ha meno tutele, chi si arrabattava con i lavoretti in nero, chi era cameriere…Dobbiamo far sì che in questo mondo nuovo non ci portiamo le carcasse del mondo vecchio» 

Secondo lei oggi ci sentiamo più italiani o più lombardi, più veneti, più milanesi, romani…?

«Io mi sento romana, italiana e somala. Per me questa divisione non ha tanto senso, anche a livello europeo. Se non stiamo “insieme” come ha detto il Papa, non ne usciamo. Vedo ancora troppe, troppe divisioni. Tra Nord e Sud, Est e Ovest, tra chi non ha debito e chi invece ce l’ha. Il pericolo è che con il coronavirus si frantumi anche l’Europa. Ciò che mi preoccupa è l’etnicizzazione della politica. Si vede rispetto al modo in cui si parla della Germania. Un conto è la politica, un conto sono i tedeschi, bisogna tenere bene a mente questa distinzione. Non si può tornare ai luoghi comuni come “Ripagateci il debito di guerra…”, cose che ho sentito dire in questi giorni. Già in Europa non ci conosciamo tra di noi: sembriamo degli estranei messi nello stesso condominio che a mala pena si salutano. Dovremmo cominciare a conoscerci meglio perché così si diventa immuni al virus degli stereotipi, dei luoghi comuni…»

Negli italiani convivono socialità e disciplina, come si è visto in questi giorni. Sono condizioni passeggere? 

«Gli italiani sono stati responsabili. Noi ci denigriamo troppo. Per anni gli italiani sono stati denigrati da altri popoli – siamo stati definiti “pigri”, “indolenti” ecc. Studiando il Grand Tour ho avuto modo di constatare come avvenisse anche in passato, nell’Ottocento. Ma penso che in un momento di emergenza emerga ciò che siamo normalmente, nel momento del pericolo reale sappiamo rinunciare alla nostra socialità. Ma nonostante la paura che ci sta attraversando adesso, una volta che avremo veramente finito con l’emergenza, spero che l’Italia possa tornare al suo cibo, alle osterie, alla sua socialità e agli abbracci. Non riesco ad immaginarmi un futuro distopico in cui la gente è a distanza. Essere italiani significa essere anche aperti al mondo, alla gioia di vita. Penso che tutti noi speriamo di tornare a una vita normale, cambiando ciò che non andava» 

Quali letture sono state indispensabili per lei durante a quarantena?

«Mi ha colpito molto la lettera di una mia amica, Francesca Melandri, che è stata pubblicata sul Guardian e su Libération e tradotta in diverse lingue, in cui spiega cosa è accaduto in Italia e cosa potrebbe accadere ai popoli dove l’epidemia non è ancora arrivata. Viene usata soprattutto in quei paesi dove i governanti non stanno prendendo le dovute precauzioni. Penso che in un momento così triste per tutto il mondo il fatto che la voce più autorevole sia quella di una scrittrice italiana, una delle nostre scrittrici più brave, sia un bel segnale. In questo momento il mio punto di riferimento è lei. Credo che se il mondo oggi vuole ancora più bene di prima all’Italia, sia anche grazie alla sua lettera».

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