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Non tutte le emergenze fanno lo stesso rumore: Rosa, Calogero, Lucia, parlano i nuovi poveri da Coronavirus

18 Aprile 2020 - 06:54 Felice Florio
Alcuni hanno perso tutto, altri hanno dovuto stravolgere i propri progetti di vita. C'è una cosa, però, che nessuna di queste persone ha perso: la dignità, forte, perno dei loro racconti

Oltre la crisi sanitaria, dietro ai numeri della macroeconomia, si nascondono le vite di chi non ce la fa a pagare la spesa, le tasse del mutuo, i debiti con i fornitori. Il Coronavirus, in Italia, ha piegato le strutture ospedaliere, rendendo un inferno la quotidianità di medici e infermieri. Ha ucciso migliaia di persone, senza che i loro cari potessero abbracciarli per l’ultima volta. E in quella trincea di perdite, in termini economici e di vite, stanno cadendo troppe persone.

C’è un popolo di partite Iva, di lavoratori a chiamata, di italiani e non che, a prescindere dal proprio stato di partenza, hanno perso ogni certezza. La Caritas, in Lombardia, in seguito all’emergenza ha dovuto aumentare del 50% la quantità di generi alimentari donati ai cittadini: 5,5 quintali distribuiti ogni giorno a 2 mila famiglie. Per il contraccolpo economico del Coronavirus, 500 nuovi nuclei famigliari sono entrati a far parte del circuito di sostegno Caritas. Sono soltanto la punta dell’iceberg e, al tempo stesso, l’avanguardia di un esercito destinato a crescere man mano che le imprese, i negozi, i laboratori artigiani che non riusciranno a reggere saranno costretti a licenziare.

Si tratta, dicono, di lavoratori a tempo determinato a cui non è stato rinnovato il contratto, di lavoratori a chiamata, precari, di lavoratori in nero, di impiegati nei settori dell’edilizia, della ristorazione, della logistica, dei servizi, come badanti e colf. Tra loro c’è Rosa Nuñez, dal 2000 in Italia. «Mi prendo cura degli anziani, lo faccio da sempre». O almeno, lo faceva prima che la signora che accudiva le ha detto di non andare più da lei, «per paura che le portassi il virus in casa».

Il disagio sociale non è solo questione di povertà in senso stretto. È l’assenza di un futuro, il vedere esaurirsi i propri risparmi e il dover riconsiderare tutta la propria vita a minare le certezze delle persone. «Forse è arrivato il momento di lasciare la casa e trasferire la residenza in barca, così risparmiamo su tasse e bollette». Sari Lindholm, finlandese di origine ma da 32 anni in Italia, vive a Monopoli. Ha lasciato il lavoro di grafica per aiutare il compagno nell’attività di viaggi charter in barca a vela. «Questa stagione non lavoreremo, probabilmente chiederò il reddito di cittadinanza e appena ci sarà consentito, cercheremo di abbattere i costi abbandonando la terraferma e iniziando a vivere in barca».

Anche Riccardo Tropiano lavora nel settore turistico. Ha aperto due anni fa un Bed and breakfast a Monopoli e, con i guadagni delle quattro camere del suo “A C-caste“, riusciva a pagarsi la retta universitaria. «Ho pagato la prima rata a inizio anno, per la seconda non so come farò». I genitori gli danno una mano ma Riccardo, nonostante la giovane età, ha investito parecchio nella sua struttura ricettiva: «Ho due mutui e debiti da pagare. Se questa stagione fosse andata come le altre, non avrei avuto nessun problema, anzi. Adesso ho chiesto alla banca di prorogare qualche rata e hanno accettato». I 600 euro dell’Inps, invece, li ha già spesi per pagare le bollette del mese di marzo.

Ibrahim Wagdy, come Rosa, non sa come fare per assicurare un pasto caldo ai suoi figli. «Ho 24 anni e vivo qui, a Milano, da cinque anni». Ibrahim, egiziano, ha studiato grafica. Poi, per necessità economiche, ha dovuto imparare un mestiere. Nel 2014 arriva primo in una categoria del campionato mondiale della pizza. «Lavoravo in una pizzeria vicina alla Stazione Centrale. Prima che chiudesse per il Coronavirus. Sono sposato, ho una bambina e un mutuo da pagare». La cassa integrazione, che deve ancora arrivare, «non basta a sopravvivere».

La situazione è critica, non solo nelle grandi città. A Varese, la cooperativa san Luigi del Consorzio Farsi Prossimo gestisce la Casa della Carità della Brunella. Prima dell’emergenza, distribuivano 60 pasti al giorno. «Con lo scoppio della pandemia – spiega don Marco -, abbiamo visto crescere le richieste di aiuto. Siamo arrivati a fornire 140 pasti giornalieri». Immacolata Annunziata è una delle persone che sopravvive grazie alla solidarietà: «Facevo le pulizie a tempo pieno in una scuola. Ora lavoro part time, quattro ore al giorno e percepisco circa cinque euro l’ora». Vive da sola con due figli: «Ho ricevuto dei soldi dal parroco e ho potuto pagare una bolletta del gas. Ma non mi posso permettere nemmeno l’abbonamento a Internet per far seguire le lezioni online ai miei figli».

Sempre nel settore delle pulizie, Lucia Muscatiello ha visto crollare la sua fonte di reddito «perché le persone presso cui lavoravo hanno paura che possa contagiarle». Lei, suo marito «che faceva lavori a chiamata prima del Coronavirus» e due minori vivono con 240 euro al mese: «Guadagno 60 euro alla settimana. Riesco a malapena a comprare il cibo». Bollette e affitto, ovviamente, Lucia non riesce a pagarli.

Rosa, Ibrahim e Calogero Amato sono aiutati dagli empori solidali che la Caritas ha aperto a Milano. Dopo tanti anni passati in carcere, Calogero ha voluto ricominciare: barista, lavoratore a chiamata, parcheggiatore allo stadio di San Siro: «Non ho mai guadagnato tanto, ma ho accettato qualsiasi lavoro pur di pagare le bollette e non far mancare nulla alla mia famiglia». Vivono in quattro, in affitto nel quartiere milanese di Barona, e l’unica fonte di sostentamento rimasta sono i 500 euro del reddito di cittadinanza.

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