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L’indagine che fa luce sui contagi a scuola: «Il 3,5% dei focolai». Orari diversi, mascherine e trasporti alternativi contro la chiusura – L’intervista

L’immunologa dell’università di Padova Antonella Viola è autrice insieme a Enrico Bucci e Guido Poli, membri del Patto trasversale per la scienza, dell’«Indagine sulla propagazione del virus nelle scuole». Qui spiega perché chiudere gli istituti è solo la soluzione più facile

Fallito il sistema di tracciamento dei contagi, il governo è davanti a una corsa contro il tempo per fermare la diffusione del Coronavirus. Già domenica 25 ottobre, a distanza di una settimana, potrebbe arrivare un nuovo Dpcm con misure ancora più restrittive sulla libertà di movimento dei cittadini. E dopo il lungo scontro dei mesi estivi, la scuola continua a essere al centro del dibattito. Le Regioni stanno andando in ordine sparso. La Puglia ha interrotto la didattica in presenza per l’ultimo triennio delle superiori. In Campania invece, dopo la chiusura delle scuole di secondo grado, si potrebbe decidere già nelle prossime ore su una eventuale riapertura delle elementari. In Lombardia, nonostante la protesta dei sindaci, il governatore Fontana difende la sua decisione di far tornare la didattica a distanza per le scuole superiori.

«Non possiamo andare a chiudere a caso»

La ministra Azzolina prova a riportare un po’ di ordine dichiarando come «la trasmissione del virus dentro le scuole è ancora limitata: i focolai a scuola nella settimana dal 12 al 18 ottobre sono solo il 3,5% di tutti i nuovi focolai che si registrano nel Paese». Un dato in calo rispetto alla scorsa settimana, ma che «preso singolarmente non ci dice molto», spiega a Open l’immunologa dell’università di Padova, Antonella Viola, autrice insieme a Enrico Bucci e Guido Poli, membri del Patto trasversale per la scienza, dello studio «Indagine sulla propagazione del virus nelle scuole».

Con i pochi dati a disposizione l’unica domanda da farsi «è se la scuola è la causa del moltiplicarsi dei contagi», dice Viola commentando la prospettiva di nuove restrizioni: «Non possiamo andare a chiudere a caso, ma dobbiamo farlo in maniera molto specifica valutando dove avvengono i contagi». Dalla ricerca emerge come non esistano motivi per evocare la chiusura delle scuole più di quanto non ce ne siano per un lockdown dell’intera società, poiché non sembra ascrivibile alla scuola l’aumento dei contagi.

Ma, dice Viola, vanno prese misure di prevenzione più efficaci. «Siamo stati molto morbidi con l’uso della mascherina. Va indossata sempre, anche al banco». Tuttavia, il vero problema, rileva l’immunologa è quello relativo alla frammentazione dei protocolli che portano ogni scuola e regione a comportarsi in modo diverso: «Servivano linee guida univoche sulla prevenzione, la diagnostica e cosa fare in presenza di positivi. Invece si è scaricato tutto sui presidi». Per l’immunologa il distanziamento e la mascherina sono fondamentali perché così, laddove ci fosse un tampone positivo, «si può evitare di considerare il resto della classe come contatto stretto, e quindi evitare una quarantena per tutti gli studenti».

Mancanza di dati

In Lombardia il governatore Fontana è stato chiaro: «O si sta a casa da scuola, o dal lavoro». Ma «chiudere le scuole è la misura più facile da prendere invece che agire dove ci sono i veri problemi», dice Viola. «Si vuole chiudere la scuola per evitare gli affollamenti sui mezzi di trasporto, ma ci sono in realtà tante altre soluzioni. Perché – aggiunge l’immunologa – non usiamo i bus turistici non utilizzati? O non sfalsiamo gli orari d’ingresso?».

In attesa di un nuovo Dpcm il presidente del Css, Franco Locatelli, esclude una chiusura delle scuole che – secondo Viola – «non avrà alcun effetto sull’evoluzione dell’epidemia perché i dati ci dicono che i contagi non stanno aumentano a causa della scuola, ma si creeranno problemi sociali enormi e di salute che ci porteremo dietro nei prossimi anni».

Nei primi mesi della pandemia, vista la mancanza di dati disponibili, ci poteva stare una chiusura totale, dice Viola. Ma ora, spiega, «manca un approccio scientifico. In questi mesi il tracciamento è stato fatto, fino a 15 giorni fa funzionava. Dovrebbero esserci dei dati disponibili, così da essere utilizzati per capire dove ci si contagia: dove sono questi dati?». Le decisioni in questa fase della pandemia «vanno prese su evidenze scientifiche – conclude – non siamo più nella fase dell’ignoranza. Si analizzi i dati e si decida dove intervenire, altrimenti le misure alla cieca sono intollerabili».

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