Coronavirus, la variante britannica scombussola i piani sui vaccini. Clementi e Viola: «Sbagliato fermarsi ora»

di Felice Florio

Due dei massimi esperti di virus e risposte immunitarie spiegano in cosa consiste l’alterazione del Sars-CoV-2 isolata nel Regno Unito. E che conseguenze avrà sulla strategia di contrasto alla pandemia

Quando tutto sembrava andare per il verso giusto, con le curve della seconda ondata che si stanno flettendo e le inoculazioni dei vaccini già iniziate in alcuni Paesi, ecco che il nuovo Coronavirus presenta una nuova minaccia. Il Sars-CoV-2 nel Regno Unito, uno di quegli Stati che hanno già avviato la campagna vaccinale, si è palesato con una variante della proteina spike. La punta della corona caratteristica di questa tipologia di virus, che permette all’agente patogeno di entrare nelle cellule, è mutata.


In teoria, la mutazione potrebbe mettere a rischio l’efficacia dei vaccini a mRNA – tra cui si annoverano quelli di Moderna e Pfizer – che attivano la generazione di anticorpi in grado di contrastare proprio quella proteina. Anche se Massimo Clementi, direttore del Laboratorio di microbiologia e virologia dell’ospedale San Raffaele, invita alla cautela nel trarre conclusioni: «C’è pochissimo di scientifico in quanto pubblicato sinora. Abbiamo soltanto una sequenza da cui si evince una minima differenza nella proteina spike». Questo tipo di mutazioni, sottolinea il professore, sono generalmente di due tipi: «O finiscono per ostacolare lo stesso virus, facendolo estinguere, oppure vengono fissate in un meccanismo darwiniano di selezione, quando queste mutazioni rendono il virus più efficiente».


Antonella Viola, immunologa dell’Università di Padova, appare sorpresa dalla notizia che la mutazione inglese stia preoccupando più delle altre, poiché «questo virus ha avuto diverse mutazioni che si sono accumulate nel tempo, e alcune riguardano proprio la proteina spike». Per la dottoressa, «la variante britannica è da tenere sotto controllo a causa delle sue numerose alterazioni», ma entrambi i medici convengono che è troppo presto per comprendere se questo ceppo del virus inficerà il successo della campagna vaccinale. Dal punto di vista della sua capacità di trasmissione, «non sappiamo ancora se questa variante abbia un vantaggio», afferma Viola, «e non sembrerebbe più patogena delle altre – rilancia Clementi -. I medici britannici dicono che si trasmetta con più efficienza, ma per affermare una cosa del genere occorrono prima studi in vitro, poi valutare con uno studio epidemiologico sulla popolazione».

Allarme per la campagna vaccinale

Il premier britannico Boris Johnson, per non mettere a repentaglio la vaccinazione vista l’insorgenza di questa nuova variante, ha annunciato un nuovo lockdown per le festività. «Sorgono alcuni dubbi, dato che Johnson si era espresso in più sedi per un Natale libero: questa variante potrebbe essere stata utilizzata come alibi politico per tornare indietro sulle proprie decisioni». Clementi ventila questa ipotesi poiché, stando alle notizie che circolano in queste ore, questa variante potrebbe non creare problemi così gravi per la campagna vaccinale. «Lo deduco da un dato: nel Regno Unito si parla del 60% di infezioni totali attribuibili a questa variante. Solo ieri, il 19 dicembre, i britannici hanno vaccinato più di 250 mila persone: la campagna è iniziata da un po’ e sicuramente qualcuno dei vaccinati è entrato in contatto con questa variante, senza riscontrare problemi».

I vaccini di Pfizer e Moderna fanno sviluppare un’immunità nei confronti della proteina spike, «la più importante per l’infezione». Intervenire su questo tipo di proteina ha un senso perché, se il farmaco biologico funziona, il virus viene bloccato prima che entri nella cellula. «Non sono sorpreso dal fatto che i vaccini in produzione sembrino funzionare anche con la variante britannica – conclude Clementi -. La proteina spike è la chiave che il virus usa per entrare nella cellula, se cambia troppo il processo di infezione non funziona più: evidentemente, la mutazione non è stata radicale». La dottoressa Viola, invece, appare preoccupata da due fattori: «Se la variante britannica ha un indice di contagiosità più elevato, le cose peggiorano perché il virus si diffonde più velocemente. E la seppur minima eventualità che i vaccini possano non funzionare ci deve allarmare».

Perché sono a rischio i vaccini a mRNA?

«Sarebbe un grosso problema se le armi che abbiamo sviluppato in quest’anno terribile, ovvero vaccini e anticorpi monoclonali, non funzionassero per una variazione del virus». L’immunologa ritiene necessario verificare immediatamente l’efficacia di vaccini e anticorpi, ritenendo che le mutazioni sulla proteina spike sono sempre rischiose e da tener d’occhio. I vaccini di Moderna, Pfizer, AstraZeneca e tutti quelli a mRNA, producono anticorpi neutralizzanti contro la spike. Diverso è il discorso sui vaccini a base di virus inattivato come quelli cinesi: «Si tratta di vaccini ad ampio spettro. Oltre alla spike – spiega Viola -, si inocula il virus completo. Quindi altre proteine potrebbero fungere da attivatori del sistema immunitario, generare anticorpi, linfociti». Una risposta più complessa che, nel caso della variante britannica, potrebbe rivelarsi più efficace rispetto ai vaccini a mRNA.

I vaccini come quelli di Moderna e Pfizer funzionano, di fatto, così: inviano un codice di lettere all’interno delle cellule, «inducendo l’espressione di una proteina spike, per cui permettono al sistema immunitario di riconoscere soltanto la proteina spike». Se la variante britannica dovesse diffondersi di più e inficiare l’efficacia dei vaccini a mRNA? «La cosa bella di questa tipologia di vaccini, molto studiati nel campo dell’oncologia, è che non è difficile variare quel codice di lettere. Si tratta di scrivere questa sequenza di codice e inserirla in una scatoletta fatta di lipidi». Se il virus cambia, non dovrebbe essere complicato intervenire sul vaccino già studiato, modificare il codice e produrre dosi in grado di rispondere a nuove varianti.

I vantaggi di questo tipo di vaccini sono almeno tre: sono meno costosi, è più facile e veloce produrne in grandi quantità, poiché non bisogna avere grandi coltivazioni di virus nei laboratori, e non contengono virus, seppur inattivi, poiché si tratta di inoculare semplicemente un’informazione per il sistema immunitario. «È come se, invece di allestire un laboratorio per coltivare grandi quantità di virus, noi diamo alle cellule l’informazione necessaria per diventare un laboratorio di risposta al Coronavirus. Non è un caso che Pfizer e Moderna siano arrivati più velocemente – conclude Viola -. I vaccini a mRNA sono più rapidi da produrre. Solo il tempo potrà dirci se saranno anche i migliori».

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