I numeri in chiaro. Il fisico Sestili sul caso Veneto: «Dati influenzati dai tamponi rapidi, bisogna ricominciare a fare tracciamento»

di Angela Gennaro

Secondo un’analisi dei dati effettuata dal network del ricercatore, il numero dei tamponi in tutta Italia a dicembre si è quasi dimezzato: «Dobbiamo tornare a fare screening e contact tracing». E sul Veneto: «Ai tamponi rapidi deve affiancare i molecolari»

Scende anche oggi il numero di nuovi casi di contagio da Coronavirus in Italia registrati nelle ultime 24 ore: sono 8.585 a fronte dei + 8.913 di ieri. Colpisce però il numero di tamponi analizzati: 68.681 in 24 ore. Pochi rispetto ai “picchi” di test a cui ci aveva abituato la seconda ondata. E no, non è solo una questione legata – come sempre accaduto – al weekend appena trascorso o alla lunga sequela di giornate “rosse” perché festive sul calendario. Secondo l’analisi dei dati condotta dal fisico Giorgio Sestili sul network di comunicazione della scienza giorgiosestili.it, il numero di tamponi fatti in Italia si è quasi dimezzato nell’ultimo mese rispetto a novembre, passando da circa 1,5 milioni a settimana a poco più di 900 mila.


Sestili, come mai sta diminuendo il numero di tamponi effettuati e questo cosa comporta?


«Nell’ultima settimana, finita ieri 27 dicembre, i tamponi realizzati sono stati complessivamente 900 mila. E anche la settimana precedente, dal 14 al 20 dicembre, il numero era stato analogo. Tra il 7 e il 13 dicembre i test erano stati poco più di un milione. Durante tutto il mese di novembre abbiamo invece registrato un milione e mezzo di tamponi alla settimana. Il calo di dicembre non è dovuto alle festività: i motivi possono essere tanti. Da una parte c’è il fatto che si fanno sempre più tamponi rapidi e sempre meno molecolari, e i rapidi però non rientrano nel monitoraggio realizzato dalla protezione civile. Secondo il protocollo, in teoria, una persona positiva al tampone rapido poi deve essere sottoposto al molecolare (anche se questo non sempre avviene).

E poi, siccome effettivamente diminuiscono i contagi, meno persone si rivolgono ai drive in e a chi fa i test: potrebbe esserci meno richiesta di tamponi – quindi tutto sommato qualcosa di positivo. Il problema è che il rapporto tra tamponi effettuati e positivi trovati non è diminuito drasticamente come sarebbe dovuto avvenire con questa riduzione dei contagi: siamo ancora sopra al 10%. E ormai sappiamo bene che per portare avanti il contact tracing e riprendere il controllo dell’epidemia e ricostruire la catena dei contagi una volta individuato un positivo, quel rapporto deve fermarsi intorno al 3%».

Ne siamo ben lontani.

«E penso sia un peccato farne così pochi ora, visto che la capacità italiana di fare tamponi arriva anche a 200 mila test al giorno. Dovremmo farne, anche come screening casuale, a livello statistico in luoghi particolarmente a rischio come ospedali o i supermercati che sono sempre rimasti aperti e a persone particolarmente esposte».

Perché non succede?

«Questa è la grande domanda. Non ho una risposta. Sappiamo che lo screening casuale non viene fatto: anche i tamponi rapidi vengono fatti a chi vuole fare un tampone. Credo sia un problema di organizzazione e gestione. Il tampone è sempre su base volontaria, ma forse il problema è anche il sottoporre a tampone periodicamente persone che non presentano sintomi?».

Vengono in mente due elementi collegati: il famoso piano Crisanti, inattuato, e il caso Veneto, stabilmente in testa alla classifica delle regioni per contagi e protagonista della polemica tra lo stesso Andrea Crisanti e il governatore veneto Luca Zaia. Chi ha ragione?

«Difficile capirlo, in questa situazione. Zaia ha deciso di puntare sui tamponi rapidi. E se questo significa testare una grossa fetta di popolazione che non si sarebbe potuto testare con i molecolari, allora è positivo, perché così si aumenta lo screening e la capacità di fare test. Ma Crisanti ha ragione nel dire che questi test rapidi hanno un’alta percentuale di errore, e quindi non può essere abbandonato il test molecolare, quanto meno per conferma. E poi nei 21 parametri del ministero – per dichiarare una regione gialla, arancione o rossa – ha un peso molto importante il numero di tamponi effettuati, quindi anche il rapporto tra casi positivi e test. Una regione che fa tanti test rapidi come il Veneto riesce a mantenere questo rapporto basso pur avendo tanti casi e in generale una situazione epidemiologica difficile. Questo è l’altro aspetto che contesta Crisanti: attenzione, il Veneto è giallo ma ha un po’ drogato i dati con questa massa di test rapidi effettuata».

Quindi quale via dovrebbe seguire il Veneto?

«Sempre la stessa: fare testing, quindi affiancando i tamponi molecolari a quelli rapidi, e ricominciare a fare tracciamento, perché è l’unico modo che abbiamo per riprendere in mano l’epidemia. E poi incominciare a raccogliere meglio i dati: con il tracciamento e il monitoraggio, cominciare ad avere un’idea di dove avvengono i contagi, di quali sono categorie e le fasce di popolazione contagiate, dove c’è maggiore esposizione. Non lo sappiamo ancora: ed è questa la richiesta che ormai ha ricevuto migliaia di adesioni della piattaforma Dati bene comune (di cui anche Open è promotore, ndr). Rendere pubblici tanti dati che il ministero ha, e migliorare l’acquisizione per migliorare le statistiche dei contagi».

Quindi il Veneto ha pagato il suo essere zona gialla?

«Anche il Lazio è sempre stato zona gialla e non è nella stessa situazione: non si può fare un discorso generico. La scelta dei colori è stata positiva per evitare un lockdown nazionale. Ma c’è sempre il rovescio della medaglia: un lockdown nazionale di un mese tra ottobre e novembre probabilmente ci avrebbe risparmiato tanti contagi, malati e morti. E avremmo passato vacanze più serene. Ma di fronte a questo scenario c’è chi dice che avremmo distrutto l’economia. Insomma, ormai si sa: resta complicatissimo. Guardando anche all’estero, sono stati adottati modelli diversi: c’è chi ha fatto nuove serrate nazionali e chi ha lavorato come noi per regioni. In ogni caso mi sembra che in questa seconda ondata non ci sia un’area che l’abbia scampata o abbia fatto meglio di altre».

Il vaccino ci libererà? E quando?

«Non prima di sei mesi: per l’inverno e la primavera il vaccino non ci darà una mano e tutto dipenderà ancora da noi, bisogna comunicarlo alle persone. Le tabelle del ministero prevedono attualmente di vaccinare 5 milioni di persone a quadrimestre: alla fine del secondo quadrimestre dovremmo avere 10 milioni di vaccinati, cioè ancora una fetta molto piccola della popolazione. A questi va aggiunto chi il virus lo ha già contratto ed è quindi immunizzato. Prima che il vaccino generi immunità di gregge forse servirà tutto il 2021. Poi ci sono le domande senza risposta: quanto dura l’immunità di un vaccinato? Non lo sappiamo. E questa è un’altra variabile importante che scopriremo solo nei prossimi mesi».

Continua a leggere su Open

Leggi anche: