Il nuovo Patto di Stabilità? «Nessun complotto Ue contro l’Italia, anzi: ci aiuta. Ma bloccare il Mes è del tutto legittimo»- L’intervista

L’esperto di governance economica europea Federico Fabbrini: «Le nuove regole proposte dalla Commissione un ottimo compromesso. Ma usare il diritto di veto non è un tabù»

Il nuovo quadro di regole che regolerà il funzionamento delle economie europee a partire dal 2024 non è ancora definito, ma da ieri – se le parole hanno un peso – quello proposto nelle scorse settimane dalla Commissione pare incanalato su un binario robusto. Nel fitto programma di cerimonie, discorsi e azioni simbolo per il 9 maggio, Giorno dell’Europa, ieri il Parlamento europeo ha offerto l’occasione anche per due segnali importanti di sostegno all’impianto del nuovo Patto di Stabilità proposto dall’esecutivo Ue. Come da manuale europeo, un compromesso, messo a punto in particolare da Paolo Gentiloni e Valdis Dombrovskis, tra la richiesta di “responsabilità fiscale” cara a Germania e Paesi nordici e quella di più ampi margini di manovra per la spesa pubblica rispetto ai vincoli del passato, interpretata soprattutto dai Paesi mediterranei tra cui l’Italia. Sul pacchetto proposto dovranno esprimersi formalmente nei prossimi mesi i governi dell’Unione. Ma ieri il leader del più “pesante” tra essi, Olaf Scholz, di fronte alla plenaria dell’Eurocamera, ha lasciato intendere come la Germania consideri quel testo un solido punto di riferimento. E gli stessi principali partiti che sostengono la “maggioranza Ursula” a Strasburgo – dai popolari ai socialisti passando per i liberali – nella prima occasione di dibattito dal varo della proposta della Commissione hanno dato un primo sostanziale via libera, al netto di possibili aggiustamenti, al “progetto-Gentiloni” (tramite dichiarazioni di principio, non un voto formale, per ora). Che impatto potrebbe avere dunque, se sarà approvato, il nuovo Patto di Stabilità pensato dalla Commissione sull’economia italiana? E il governo di Roma che posizione dovrebbe quindi assumere nelle trattative delle prossime settimane? Open lo ha chiesto a Federico Fabbrini, docente di diritto europeo alla Dublin City University e alla Princeton University, esperto del Centro Studi sul Federalismo e autore di numerosi rapporti per le istituzioni proprio sugli scenari della governance economica Ue.


Piani di bilancio pluriennali concordati con la Commissione, precisi impegni di aggiustamento fiscale per i Paesi con debito o deficit eccessivo, sanzioni automatiche per chi non rispetterà questo percorso. Prof. Fabbrini, qual è il suo giudizio d’insieme sulle nuove regole proposte dall’Ue?


«Premessa fondamentale, dal mio punto di vista: la riforma del Patto di Stabilità e di Crescita è parte di un più ampio quadro di riforma del sistema di governance economica dell’Ue, che include anche il Next Generation EU e tutto lo sviluppo di questa nuova, enorme capacità fiscale centrale. Se ci focalizziamo solo sul Patto, e speriamo magari di ottenere tutto solamente da quello, rischiamo di perdere di vista una metà abbondante del quadro, quella più innovativa. Quanto al Patto di Stabilità, è evidente che quello pensato negli anni ’90 e che abbiamo conosciuto per 25 anni si è rivelato fallimentare: all’atto pratico gli Stati lo hanno più violato che rispettato. E dopo la sospensione negli anni della pandemia un nuovo quadro di regole era indispensabile. Quella della Commissione mi sembra una proposta positiva e ragionevole proprio perché va nella direzione di risolvere alcune delle principali criticità del vecchio Patto, facendo al contempo tesoro della lezione positiva di Next Generation EU. Si esce infatti dalla logica one size fits all dimostratasi irrealistica visti i diversi livelli di debito pubblico, deficit e imposizione fiscale, e si introduce un meccanismo più tailor-made, cioè studiato su misura per ogni Paese. E in più si fa tesoro dell’esperienza dei Piani nazionali di ripresa e resilienza, prevedendo che ciascun Paese prepari un piano strutturale di bilancio pluriennuale – da un minimo di quattro a un massimo di sette anni – che può e deve includere però anche delle riforme. Aumentando così la ownership dei progetti economici da parte dei vari Paesi in parallelo al ruolo di verifica dell’esecuzione dei piani della Commissione».

Uno dei nodi principali venuti subito al pettine, non solo in Italia, riguarda però proprio il ritmo del “consolidamento fiscale” richiesto ai Paesi con debito pubblico o disavanzo eccessivi rispetto alle note soglie: 60% e 3% rispettivamente sul Pil. Una rotta di aggiustamento pari almeno a mezzo punto di Pil all’anno che per l’Italia, come calcolato dagli stessi servizi della Commissione, potrebbe corrispondere a uno sforzo di rientro da 14-15 miliardi di euro l’anno. Come dovrebbe valutare questo scenario e dunque reagire alla proposta il governo italiano?

«Il mio giudizio è che in politica non ci sono mai delle scelte in astratto, ma sempre in relazione alle alternative. È chiaro che una riduzione dello 0,5% di Pil all’anno per chi sfora i target vuol dire tagliare. Ma non dimentichiamoci che l’alternativa, in base al vecchio Patto di Stabilità così come riformato dal Six pack del 2011 prevedeva una riduzione annuale pari a un ventesimo del debito in eccesso rispetto ai parametri di Maastricht. Sarebbe stata una manovra molto ma molto più recessiva: una mazzata straordinaria, per di più con l’impatto dell’inflazione a correggere il rapporto debito/Pil. Nel complesso quindi quello proposto mi sembra per l’Italia un sostanziale miglioramento: rispetto al passato, ma anche rispetto al contesto. È del tutto illusoria la tentazione che si tocca a volte nel dibattito italiano di pensare che ci possano essere “pasti gratis”, per cui con la riforma del Patto l’Ue concede all’Italia di fare tutto il debito e deficit che vuole per fare la nostra spesa pubblica come ci pare. Questo non succederà mai perché siamo in un’unione economica e monetaria, dunque le nostre azioni hanno implicazioni sugli altri. La strategia più intelligente a mio modo di vedere è dire “Ok, noi riduciamo il nostro deficit e il nostro debito, ma chiediamo un continuo supporto da parte dell’Europa su alcune attività che non riusciamo più a coprire con i nostri soldi”. E questo vuol dire anche usare tutti i miliardi del Pnrr e chiederne altri, quando c’è la possibilità di farlo».  

Il quadro politico-economico è in effetti più ampio, e include altre due tendenze: da un lato il continuo rialzo dei tassi d’interesse da parte della Bce, che rendono più costoso per l’Italia finanziare il proprio debito; dall’altra le richieste tornate a farsi pressanti dai partner perché Roma sblocchi il nuovo Mes. Pecca di vittimismo o ha qualche ragione chi pensa che il vento in Ue sia cambiato da quando a Palazzo Chigi non c’è più la figura di garanzia di Mario Draghi?

«Certo, il quadro economico è modificato, l’inflazione resta alta e la Bce fa la sua politica monetaria perseguendo il suo mandato, che è mantenerla attorno al 2%. E come sappiamo non ci sta riuscendo, quindi è realistico che i tassi continueranno a salire. Ma francamente no, non vedo per niente un complotto anti-italiano. Anzi. Mi sembra che la proposta della Commissione di riforma del Patto di stabilità tenga molto presente e cerchi di venire molto incontro alla situazione particolare dell’Italia. E la Bce pochi mesi fa ha adottato un nuovo strumento, il Transmission Protection Instrument, che è essenzialmente pensato sull’Italia per consentirle di intervenire laddove ci siano delle variazioni sugli spread non giustificati dai fondamentali. Mi pare quindi che tutti i decisori, sia a Bruxelles che a Francoforte, abbiano pienamente nel loro radar le problematiche dell’Italia: d’altra parte è la terza economia dell’Eurozona e dell’Ue, quindi nessuno può facilmente dimenticarsene. Il vero problema, se mai, riguarda il Pnrr. Next Generation EU è stata un’operazione storica: per la prima volta l’Europa ha fatto oltre 800 miliardi di debito comune, e all’Italia ne sono stati assegnati un terzo. Com’è possibile che questi soldi non vengano interamente utilizzati e che non ci sia un commitment assoluto da parte del governo a portare avanti tutto quello che è previsto dal Piano? Di fronte a un atto di solidarietà collettiva senza precedenti nei confronti dell’Italia, sarebbe veramente autolesionista non utilizzarlo appieno».

D’accordo, ma il “pressing alto” sul Mes? Si giustifica con questa incomprensione di fondo?

«Su questo ho una posizione eterodossa” rispetto a molti osservatori, e non da oggi. Sin da quando fu approvato nel 2012 sono stato critico nei confronti del Mes: per il modo in cui è stato disegnato – con un trattato intergovernativo e una struttura decisionale che sarebbe totalmente incompatibile con i principi comunitari. Di fatto ogni Paese conta in base a quanti soldi mette, il che fu voluto by design, perché nasceva come un diktat del governo Merkel dell’epoca e della Corte costituzionale tedesca che diceva “I salvataggi sono fatti con i nostri soldi, quindi le condizioni le decidiamo noi”. La riforma approvata nel 2020 prevede di utilizzare le risorse del Mes al fine di renderlo il backstop dell’unione bancaria, ma non cambia la governance decisionale. Il che vuol dire che se un domani dovesse essere utilizzato per salvare una banca, di nuovo sarebbero i tedeschi ad avere un potere di veto sulle relative condizioni. Molto più sensato sarebbe spingere per un’unione bancaria, con un meccanismo di assicurazione sui depositi che sia veramente federale, non intergovernativa, perché questo crea delle asimmetrie decisionali molto complicate da un punto di vista della legittimità».

Dunque il governo italiano, o meglio la maggioranza che lo sostiene in Parlamento, fa bene a mettersi di traverso sulla ratifica del nuovo Mes?

«La mia critica naturalmente parte da un ragionamento opposto: federalista, non sovranista. Ma da un punto di vista storico non dimentichiamoci che più volte nella storia del progetto di integrazione alcuni Trattati sono morti perché alcuni Paesi non li hanno approvati: come la Comunità europea di difesa bocciata negli anni ’50 dalla Francia o la Costituzione europea negli anni 2000 di nuovo da francesi e olandesi. E tante altre cose non sono andate avanti per per veti nazionali. Quindi l’uso del veto quando è previsto dalla legge è ampiamente legittimo. Ciò detto, dal mio punto di vista non ci sarebbe nulla di male nel dire “Ok, se altri Paesi lo richiedono noi lo autorizziamo”, ma mi sembra che potrebbe essere intelligente per il governo fare una controproposta, legando la ratifica del Mes alla riapertura di un dibattito su questo strumento. In ogni caso, nonostante la stampa italiana gli dia risalto, non mi sembra che questo sia più davvero un tema centrale nel dibattito europeo».

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