Lampedusa, la storia del pescatore Enzo: «In mare da 50 anni, nessuno dovrebbe morire sott’acqua» – Il video

Enzo Billeci ha un peschereccio, Palermo Nostra, e fa questo lavoro da sempre. Un lavoro che negli anni è cambiato per la concorrenza tunisina. «Ma non sono arrabbiato. Si trova sempre il modo di campare»

Enzo fa il pescatore a Lampedusa da tutta la vita. «Questo peschereccio era di mio padre. Ho cominciato a pescare che avevo forse 10 anni. Lo faccio da 50 anni», racconta. Un tempo in cui tante cose sono cambiate nell’isola. «Fino agli anni ’90 qui facevamo pesca azzurra. Lo sgombro: eravamo quindici pescherecci, tutti padri di famiglia. E l’industria dello sgombro dava lavoro a tutti, anche a chi era a terra. Alle donne, agli studenti», dice mentre, con suo fratello, prepara reti e peschereccio per uscire: staranno fuori fino a giovedì, «sotto a questo sole».


Poi però qualcosa è cambiato: «Non so se hanno dato loro incentivi statali: fatto sta che sono cominciati ad arrivare i pescherecci tunisini. Tanti, tantissimi. Sono ancora tanti». Pescavano nelle acque di fronte a Lampedusa, racconta, e la concorrenza ha schiacciato la piccola flotta lampedusana. «Dovevamo andare sempre più lontani, lo sgombro si muove. E loro erano e sono tanti. Abbiamo chiesto aiuto alle istituzioni, siamo andati a Roma al ministero. Ci dicevano che non si poteva fare nulla perché sono acque extraterritoriali. Avrebbero potuto fare di più», dice Enzo.


Dalla pesca azzurra alla pesca a strascico

Eccolo, lo ‘straniero che ruba il lavoro’? «Sì, sorride Enzo. Ma no, non sono arrabbiato. Tanti di noi hanno perso il posto, su questo peschereccio che prima imbarcava un equipaggio di quindici persone ora siamo in quattro. Ora facciamo pesca a strascico. Gli altri si sono reinventati: chi nel turismo, chi è andato via. Fa parte delle cose. Ora abbiamo il turismo, speriamo di non fargli fare la fine dello sgombro», dice il pescatore.

Al molo non la pensano tutti come lui. Gli sbarchi continuano. Da sempre, dicono tutti. E qualcosa, anche tra chi vive il mare, sembra insinuarsi nell’anima. Qualcosa che tocca il principio sacro del soccorso in mare. Magari lo si dice sotto voce. Magari non a favore di telecamera. Però qualcuno, anche tra gli uomini di mare, quel tabù lo sta cominciando ad abbattere.

«Alcuni lampedusani sono preoccupati del fatto che i riflettori accesi sull’isola per la questione migratoria allontanino il turismo», dice ancora Enzo. «Ma questo non ha niente a che fare con il salvataggio in mare». Pensa al giorno del grande naufragio del 3 ottobre 2013. A poche miglia dal porto, l’imbarcazione – un peschereccio – che si ribalta e capovolge: 368 morti, 20 dispersi, 155 persone salvate. «Sono arrivato lì che avevano appena tirato su l’ultimo naufrago. Ho trovato una situazione terribile: ogni volta che ci penso tremo», dice Enzo. «Immagina un barcone che si rovescia. Magari di notte. Io faccio questo lavoro da 50 anni. Da adolescente ho rischiato di morire annegato. So cosa vuol dire stare sott’acqua. No, non lo auguro a nessuno. E non lo so dove questo clima ci stia portando».

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