Trattativa di governo: dove sono finite le donne?

Dalla prima candidata premier donna a un totonomi ben poco rosa. Quanto peseranno le tematiche di genere sul governo «della discontinuità»?

Secondo Massimo Cacciari, il nuovo governo dovrà affrontare il futuro «più virilmente». La frase infelice – che è scappata al filosofo in un’intervista con l’agenzia AdnKronos sulla crisi di governo – è stata subito criticata, ma potrebbe rivelarsi profetica. A giudicare dalle trattative, sembra che il nuovo governo sarà formato quasi esclusivamente da uomini. A un certo punto si era mormorato il nome di Marta Cartabia, giudice della Corte Costituzionale, come possibile primo ministro. Sarebbe stata la prima donna premier. Ma da quando il nome della costituzionalista è stato scartato – dopo il suo annuncio di voler portare a termine il proprio mandato di vicepresidente della Consulta- con l’entusiasmo di questa possibile prima volta è sparito dalle discussioni (ameno quelle trapelate) qualsiasi riferimento alla parità di genere. 


La composizione del nuovo esecutivo che, ormai è chiaro, sarà un Conte-bis, sarà presentata al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella nelle prossime ore, forse già la sera del 29 agosto, ma sui nomi dei possibili ministri si è già parlato molto. Quelli più quotati per il dicastero dedicato allo Sviluppo sono Vincenzo Spadafora, Alfonso Bonafede, Riccardo Fraccaro, Stefano Patuanelli, Francesco D’Uva o il fichiano Giuseppe Brescia. Si è parlato di un possibile incarico al Viminale per Franco Gabrielli, Marco Minniti, Raffaele Cantone e di un possibile Paolo Gentiloni al ministero degli Esteri. Insomma, pare che al di là delle varie divergenze politiche, ideologiche o programmatiche i nuovi ministri una cosa in comune ce l’avranno: la cravatta.  


Nicola Zingaretti aveva parlato di garantire la parità di genere nella scelta della nuova squadra ma alle riunioni sembra che l’unica donna ad avere voce in capitolo sul nuovo governo sia Paola de Micheli, vicesegretaria dei dem. Le donne citate nei vari totoministri sono state la renziana Teresa Bellanova, Elisabetta Belloni e Lucrezia Reichlin o Mariana Mazzucato come figure tecniche per l’Economia. Nomi di donne competenti che emergono ciclicamente e che spariscono troppo spesso soffocati da una schiacciante egemonia maschile della politica. Anche Elisabetta Trenta, il nome femminile più noto del governo Conte, sarà probabilmente assente nel nuovo esecutivo. Con lei anche Giulia Grillo, ministra della Salute, sembra non verrà riconfermata. Nulla è ancora deciso, ma tutto fa pensare che resteremo lontani anni luce dall’Europa in cui Ursula von der Leyen ha affermato che «Un Commissario su due sarà donna».

I punti del programma 

Non solo le donne sembrano escluse dalle poltrone, ma le questioni che le riguardano non paiono nemmeno figurare tra le priorità della nuova coalizione. Tra le parole-feticcio brandite da Cinque Stelle e Pd – «redistribuzione», «equità», «sostenibilità» – il termine «parità di genere» si sarebbe sentito a casa. E invece no, ingoiato da un lapsus collettivo. Si parla di salario minimo ma non di disparità salariale tra uomo e donna, di sostenere le famiglie e la natalità senza menzionare la disuguaglianza nella gestione domestica e la mancanza di sostegno alle donne perché riescano a conciliare vita familiare e professionale. Si parla molto di sicurezza e giustizia dimenticandosi di nominare anche la violenza domestica. 

Con il governo Conte la quota di donne nell’esecutivo, considerando anche sottosegretari e viceministri, era del 17,19%. Il 10% in meno rispetto al governo Gentiloni e più del 30% in meno rispetto all’esecutivo Renzi. Da Letta in poi non ci sono mai state così poche donne al governo come in epoca giallo-verde. La speranza, come espressa dalla «Rete per la Parità» in una lettera indirizzata alle forze politiche ricevute al Quirinale, è che «la discontinuità», rispetto al governo giallo-verde, sia marcata anche nelle politiche che riguardano o incidono sulle donne.

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